Sharing economy: il Giappone dice no

Leggi e fattori culturali hanno ostacolato l’affermarsi di aziende come Uber e Airbnb

Il Paese del Sol Levante sembra non aver abbracciato un modello economico che oggi appare come diffuso e di successo nel mondo occidentale: la cosiddetta “sharing economy”. I numeri parlano chiaro, come evidenzia The Japan Times in questo articolo, Airbnb registra migliaia di prenotazioni annullate, mentre Uber in pratica è stato ridotto a un servizio di consegna dei pasti.

Secondo l’istituto di ricerca Yano, nel 2016 in Giappone la sharing economy valeva 450 milioni di dollari, contro un pil nazionale pari a circa cinquemila miliardi. Benché si tratti di un aumento del 26% rispetto all’anno precedente, questa cifra è una goccia nell’oceano se paragonata a quanto accade nei mercati europei e statunitensi o anche solo cinesi.

Il concetto in sé di sharing economy non è compreso, basti pensare che secondo un sondaggio condotto nel 2017 da PricewaterhouseCoopers, solo il 2,7% dei giapponesi ha una vaga idea di cosa significhi.

Le leggi mettono poi un bastone tra le ruote. Se prendiamo ad esempio il caso di Airbnb, lo scorso 15 giugno è entrata in vigore una nuova legge che regolamenta il settore degli affitti a breve periodo, limitandone fortemente la durata (non più di 180 notti all’anno) con la possibilità da parte delle autorità locali di imporre ulteriori restrizioni. Commentatori osservano che il tutto è volto a tutelare gli albergatori e le pensioni tradizionali, mentre la lobby dei tassisti si è scagliata contro Uber.

I fattori culturali sembrano ruotare invece attorno all’idea di privacy, un valore diffuso molto sentito in Giappone, che la sharing economy metterebbe a rischio per via del flusso di persone che transitano in spazi comuni, come il cortile di un condominio. Sembra che in campagna e nelle isole ci sia una maggiore apertura rispetto alle grandi città.

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