Servizi: l’impatto del Covid

Le analisi dell’Osservatorio del Terziario di Manageritalia evidenziano con il contributo di BCF Local Economies l’impatto del Covid sull’economia e sui settori.

Il lancio dell’Osservatorio del terziario Manageritalia ha aperto un ampio dibattito anche su un tema di scottante attualità: l’impatto del Covid. Grande da più parti l’interesse per analisi spesso inedite e che danno vita a un dialogo a vari livelli per ripartire con un terziario sempre più in grado di giocare il suo ruolo determinante oggi e in futuro per ogni economia avanzata. Per questo riprendiamo di volta in volta alcuni dei punti chiave del rapporto e condividiamo analisi, riflessioni e traiettorie per crescere davvero e in tutti i sensi.

Vediamo oggi con l’analisi di BCF Local Economies “L’impatto del Covid nei diversi settori”.

L’IMPATTO DEL COVID NEI DIVERSI SETTORI: UNO SGUARDO D’INSIEME

L’impatto sul valore aggiunto
La Tabella 1 riassume l’impatto della crisi legata alla pandemia di Covid-19 sull’andamento del valore aggiunto nei diversi settori dell’economia italiana, considerando il valore storico riportato da Istat e le previsioni di Oxford Economics per il periodo 2021-2022. Nello specifico, stimiamo sia la variazione del valore aggiunto nel 2020 rispetto al livello del 2019, sia la distanza tra il trend per gli anni 2020-20222 senza la caduta dovuta al Covid e il valore aggiunto realizzato nel 2020 e previsto per il 2021-22 con la crisi Covid-19. La perdita stimata cumulata nei tre anni è riportata nell’ultima colonna della tabella.

I 5 settori più colpiti in termini di perdita di valore aggiunto cumulata sono tutti nel macrosettore dei servizi: alloggio e ristorazione, trasporto e magazzinaggio, attività artistiche, commercio e attività professionali. Per quanto riguarda alloggio e ristorazione, il settore perde oltre un terzo del proprio VA nel 2020 sia rispetto al 2019 sia rispetto al trend. Trasporto e magazzinaggio perde “solo” il 12% nel 2020 rispetto al 2019, ma il VA rimane al di sotto del trend atteso più a lungo, con una perdita cumulata sul 2020-2022 che raggiunge il 33% del valore aggiunto 2019. Al di fuori dei servizi, il settore manifatturiero è solo il sesto più colpito, e dovrebbe aver praticamente ripreso il trend pre-crisi per il 2022. Alcuni servizi escono tuttavia indenni dalla crisi: è il caso della pubblica amministrazione, ma anche dei servizi di informazione e comunicazione, che tuttavia nel confronto con il trend perdono il -2,4% cumulato nel 2020-2022. Infine, è interessante notare come è previsto che l’intera economia resti ben al di sotto del trend precedente la crisi, -9% nel 2020 ma ancora -5,3% nel 2021.


L’impatto sull’occupazione
L’impatto sull’occupazione è invece più contenuto per tutti i settori, ma maggiormente concentrato nel settore dei servizi. Infatti, guardando ai dati, i servizi più duramente colpiti dalla perdita di valore aggiunto sono anche quelli che riportano perdite occupazionali maggiori. Un’eccezione in negativo è il settore delle attività artistiche e intrattenimento, che riporta la seconda maggiore perdita occupazionale in termini cumulati. Al contrario, il settore manifatturiero non dovrebbe subire nel triennio 2020-22 variazioni sostanziali nei propri livelli occupazionali, nonostante le pesanti perdite riportate in termine di valore aggiunto.


Cosa suggerisce il confronto tra l’impatto su valore aggiunto e sull’occupazione
La figura 1 sottostante riporta, sull’asse orizzontale, la differenza in % tra il valore aggiunto del 2020 e il valore atteso secondo il trend stimato sugli anni pre-crisi. Sull’asse verticale riporta invece la stessa deviazione percentuale dal trend per il 2020, ma per il numero di occupati.

Duramente colpiti risultano i servizi di alloggio e ristorazione, con una perdita di valore aggiunto del 36% ed una perdita occupazionale del 7,5%. Al contrario, settori come quello dell’informazione e comunicazione hanno variazioni vicine allo zero sia per quanto riguarda il valore aggiunto che per quanto riguarda l’occupazione.

Un’ulteriore indicazione può venire dalla linea di regressione che indica l’impatto atteso sull’occupazione data la variazione del valore aggiunto. Questa linea rappresenta quanto in media diminuisce l’occupazione in un settore al decrescere del valore aggiunto. Più i settori si trovano al di sopra di questa linea, più significa che in media hanno subito perdite occupazionali minori nonostante le perdite di valore aggiunto. Settori come l’alloggio e ristorazione o sanità e assistenza sociale hanno perdite occupazionali in linea con le attese data la perdita di valore aggiunto, ossia “vicine” alla linea di regressione”. Invece, settori come le attività manifatturiere o l’istruzione hanno perdite occupazionali minori di quelle attese data la perdita di valore aggiunto, mentre settori come il commercio, i trasporti e le attività artistiche hanno perdite occupazionali maggiori di quelle attese data la perdita del VA.


Con uno sguardo più attento alla figura 1 emerge un’ulteriore considerazione: molti settori non-terziari (manifattura, utilities, estrattivo, e l’eccezione non casuale dell’istruzione) riportano perdite occupazionali minori rispetto a quelle attese data la diminuzione del valore aggiunto. In altre parole, i settori dei servizi si trovano nella Figura 1 al di sopra della linea di regressione che rappresenta la relazione media fra perdita di occupazione e perdita di valore aggiunto in un settore.

Cosa spiega questa asimmetria? Viene spontaneo pensare che questo fenomeno sia legato alle caratteristiche dell’occupazione e alle forme contrattuali prevalenti in questi settori, interagite con le politiche del lavoro messe in campo per fronteggiare la crisi. Queste politiche – espansione della Cassa Integrazione Guadagni e blocco dei licenziamenti – si applicano esclusivamente ai lavoratori a tempo indeterminato (mentre per alcuni dei lavoratori negli altri settori viene previsto lo strumento dell’indennità).

Per comprendere ulteriormente se questo fenomeno è dovuto a differenti forme di protezione del lavoro in questi settori, la figura 2 riporta l’opposto dei residui, ossia la distanza verticale tra i punti e la linea di regressione della figura 1 descritta precedentemente, plottati sulla percentuale di lavoratori a tempo indeterminato secondo l’Istat, nel 2018. Ad esempio, in alto a destra troviamo i settori manifatturiero, delle utilities e delle attività estrattive, che si situano ampliamente al di sopra della linea di regressione in figura 1, quindi con perdite occupazionali inferiori a quelle che si sarebbero attese tramite data la diminuzione del valore aggiunto, ma che riportano anche percentuali elevate di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sull’asse orizzontale della figura 2.

Più in generale si può vedere come, sempre con una regressione semplice e puramente descrittiva, siano i settori con una % maggiore di dipendenti a tempo indeterminato quelli che riportano una perdita occupazionale minore data la perdita di valore aggiunto intercorsa. Questa semplice descrittiva va interpretata con cautela, ma potrebbe segnalare che le tutele messe in campo hanno protetto in maniera diseguale i lavoratori di diversi settori. Da un lato, i lavoratori a tempo indeterminato, maggiormente presenti nei settori manifatturieri o in servizi come l’istruzione, protetti grazie al blocco dei licenziamenti e alla cassa integrazione. Dall’altro lato, vediamo invece che settori importanti dei servizi come le attività artistiche e di intrattenimento, trasporto e magazzinaggio, e commercio hanno avuto una diminuzione dell’occupazione record rispetto alla loro perdita di VA, a fronte di percentuali minori di lavoratori a tempo indeterminato “protetti” dal blocco dei licenziamenti e dalla CIG.

È interessante infine notare come la relazione sia meno chiara considerando le ore lavorate. Il P-value della regressione nella figura 2 a destra è infatti minore rispetto a quello della Figura 2 a sinistra, segnalando una maggiore significatività della relazione, pur rimanendo al di sotto dei livelli di confidenza standard, e l’R2 è maggiore. Questo supporta, sempre in maniera non causale, l’ipotesi che siano state proprio politiche come la CIG e il blocco dei licenziamenti – in cui il lavoratore resta formalmente occupato ma “a casa” – ad attenuare la perdita di occupazione in settori come il manifatturiero, le utilities o l’istruzione.

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