Paradise Papers: scandalo internazionale

Scoppia un altro caso di conti offshore. Molti nomi noti coinvolti. Come arginare il fenomeno dei paradisi fiscali? Facciamo il punto con Nicola Quirino, esperto in economia e finanza e professore di Finanza pubblica presso l'Università Luiss di Roma

Quali sono gli aspetti che l’hanno più colpita della vicenda dei Paradise Papers?

La vicenda dei Paradise Papers è il risultato dell’inchiesta condotta dal global network ICIJ, cioè dal consorzio internazionale dei giornalisti investigativi, di cui fanno parte più di 200 giornalisti di oltre 70 paesi. Si tratta della stessa organizzazione che, ad aprile dello scorso anno, ha diffuso le informazioni contenute nei cosiddetti Panama Papers, relative ai conti offshore di circa 14mila clienti, tra i quali figuravano capi di governo, ministri, star dello spettacolo, alti funzionari pubblici ecc.
Probabilmente, l’aspetto più inquietante delle due inchieste è la facilità con cui l’élite dei super-ricchi (ovvero lo 0,1% della popolazione mondiale) è riuscita a trasferire enormi patrimoni finanziari nei paradisi fiscali, sottraendoli così alla tassazione. Patrimoni che, secondo le stime, ammonterebbero a più del 10% del Pil globale e che non di rado sarebbero il frutto di attività criminali (commercio di armi, narcotraffico, riciclaggio ecc.).

Cosa sono i paradisi fiscali in poche parole? Perché esistono e cosa determina il loro inserimento nella black list?

Sono considerati paradisi fiscali (o tax haven) quegli stati che applicano regole rigide sul segreto bancario e che hanno un regime fiscale privilegiato, tale da favorire l’insediamento delle società offshore. Queste società sono molto spesso delle semplici “scatole vuote” senza dipendenti o uffici, che servono solo per tenere segreti i nomi dei titolari e per ridurre/azzerare il debito d’imposta derivante da attività commerciali o finanziarie svolte all’estero. Emblematico in tale contesto è il caso delle oltre 18mila società tutte con sede in una piccola palazzina di George Town nelle Isole Cayman.
Com’è stato giustamente sostenuto, quella dell’offshore è un’industria che rende “il povero più povero”, perché finisce col ridurre le risorse che potrebbero essere destinate a potenziare gli interventi del sistema di welfare.
Aggiornata periodicamente dal ministero dell’Economia, nella black list rientrano quei paesi a fiscalità privilegiata che non promuovono lo scambio di informazioni finanziarie con lo Stato italiano e che perciò alimentano il fenomeno delle frodi fiscali (caroselli, cartiere ecc.).
Grazie agli accordi internazionali, nel 2018 solo 18 paesi dovrebbero rimanere nella black list (Bahamas, Brunei, Barbuda, Oman ecc.).

Ci sono nomi insospettabili come la Regina Elisabetta e colossi come Apple. Devono esserci vantaggi enormi e pochissimi rischi se personaggi e aziende di questo livello rischiano la loro immagine?
Assieme alla regina, il personaggio inserito nei Paradise Papers che mi ha più stupito (e deluso) è senz’altro il cantante degli U2 Andy Bono, perché il suo nome è stato sempre accostato a campagne umanitarie contro la fame nel mondo, le guerre e le ingiustizie.
Ovviamente, i vantaggi degli investimenti offshore sono molto elevati e derivano principalmente dalla possibilità di mantenere “coperte” le transazioni e di abbattere (in tutto o in parte) il debito d’imposta. Se ciò è vero, è anche vero però che i rischi di tali investimenti sono crescenti: perché – fortunatamente – sta aumentando la pressione dei governi di molti paesi sui paradisi fiscali, come suffragato dalla loro maggiore disponibilità a favorire lo scambio di informazioni finanziarie.

C’è un modo per combattere i paradisi fiscali, oltre a quello delle indagini e delle pene? Magari cambiare il sistema fiscale, vietare scambi con chi fa da paradiso fiscale ecc.?

Naturalmente, date le dimensioni del fenomeno in esame, l’azione degli organismi sovranazionali appare più appropriata. Senza dimenticare però che tale azione deve essere integrata con interventi nei confronti delle nuove forme di occultamento della ricchezza, quali, ad esempio, i bitcoin.
Ancora una volta vale la pena ripetere che il problema non è quello di vietare le transazioni tra le imprese residenti nel nostro Paese e quelle con domicilio nei paradisi fiscali, quanto quello di rendere tali operazioni trasparenti.

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