La spesa ai tempi del Covid

La rivoluzione nel mondo dei consumi: la fotografia in un’indagine

Gli ultimi anni, e in particolare il 2020 e il 2021, caratterizzati dalla pandemia Covid-19, sono stati contraddistinti da sostanziali modifiche nelle abitudini di consumo degli italiani. Dalla tavola ai servizi, alla moda, a cambiare sono principalmente le motivazioni dei consumatori, che ricercano non solo nuovi prodotti e nuovi comportamenti, ma soprattutto nuove esperienze di acquisto.

L’ultimo anno ha portato in primis verso un’ulteriore polarizzazione della società italiana: si è ampliato il divario tra le fasce più abbienti e quelle in difficoltà economica (che si tratti di generica difficoltà, di povertà relativa o assoluta). Non a caso, le numerose ricerche svolte negli ultimi mesi mostrano comportamenti opposti da parte di gruppi sociali differenti: per un’ampia parte dei campioni, il driver fondamentale di acquisto è e resterà la ricerca di convenienza, intesa sempre più come prezzo basso per una qualità accettabile, mentre la parte economicamente più solida della popolazione pensa sempre più a prodotti e servizi ad alto valore aggiunto, innovativi e sostenibili. A pesare sul quadro generale non è tanto la capacità di spesa (potenzialmente elevata dopo un anno di spese limitate per la mancanza di numerose occasioni di acquisto e consumo) quanto il timore per il futuro: la preoccupazione fondamentale degli italiani non è più legata alla pandemia o allo stato di salute personale o dei familiari, ma è relativa allo stato economico-finanziario del nucleo familiare e alla potenziale nuova disoccupazione, non di breve periodo.

Un buon esempio di questa polarizzazione è dato dal settore abbigliamento/accessori/moda: qui troviamo come driver primario il prezzo conveniente per il 26,8%, a cui si contrappone lo stile particolare, distintivo, con il 14,8%, mentre la qualità realizzativa (14,3%) supera di poco la comodità (11,7%). Passando ai driver complessivi (non solo il primario), la convenienza (65,6%) stacca nettamente gli altri, con la comodità al 47,8%, la qualità della realizzazione al 41,8% e lo stile solo al 32,7%.

Cibo: un piacere salutare
Una cartina tornasole è data dal settore alimentare: superata la fase più critica della pandemia, gli italiani mostrano un rapporto con il mondo food&beverage in rapida evoluzione, con la polarizzazione a cui abbiamo accennato. A maggio 2021 si conferma che il cibo è primariamente piacere, soddisfazione, esperienza (48,4%) rispetto a nutrizione e contributo alla salute (26,3%), con circa un quarto della popolazione che si colloca tra i due estremi (25,3%). Al centro, quindi, c’è il piacere più che la salute: il Covid-19 non ha scalfito questo approccio all’alimentazione.

A cambiare, invece, sono i comportamenti: chiedendo quali sono le intenzioni di consumo per i prossimi 3-5, anni si ha un vero boom di frutta e verdura (il 51,5% e il 54% degli italiani affermano di volerne aumentare il consumo), solo in parte seguiti dagli alimenti preparati vegetali/vegani (25,6% afferma che ne incrementerà il consumo, ma il 15,1% lo diminuirà). Interessante anche la crescita prevista del pesce (fresco e non), con ben il 37,5% degli intervistati che va nella direzione di consumi maggiori.

A perdere terreno sono la carne (il 29,6% intende ridurne la quantità) e – in modo meno grave – i latticini (il 21,4% va verso un minor consumo, ma in parte bilanciato dal 14,1% che intende aumentarlo). La sostituzione della carne con altre proteine non sembra essere nella direzione di prodotti alternativi, come quelli derivati dagli insetti (il 3,2% è molto favorevole, il 18,2% molto o abbastanza), ma con altri alimenti.

Il dato peggiore è quello relativo agli alcolici sotto i 20° (in cui rientrano i fondamentali birra e vino) per i quali quasi un italiano su tre auspica una riduzione personale del consumo nei prossimi anni (32,1%) e solo uno su nove (11,6%) prevede di aumentarli.


Non mi fido del bio
È doveroso sottolineare il fatto che un italiano su due (48,6%) ha intenzione di andare nella direzione dei prodotti con marchio di garanzia, come Doc, Docg, Dop e Igp. La cosiddetta “Dop economy” sembra essere già premiata dai cittadini ed essere una fondamentale area di sviluppo per il futuro. Non manca un rilevante problema: una crescente parte degli italiani (16%, secondo l’indagine AstraRicerche/McDonald’s di aprile 2021) non si fida di Dop, Igp e affini (di certo non hanno aiutato i comportamenti di alcuni attori non corretti e alcune informazioni diffuse dai mezzi di informazione). Sotto questo punto di vista, va peggio ai prodotti che hanno un claim di “biologico”: più di un italiano su quattro (25,6%) non si sente garantito da tale indicazione, così come quasi uno su cinque (19,9%) non lo è quando legge “Made in Italy” nel settore alimentare.

Meglio con che senza
La pandemia Covid-19 sembra aver cambiato il rapporto con il food anche per quanto riguarda la preferenza tra prodotti che si focalizzano (almeno a livello di comunicazione) sull’essere “con” (con elementi positivi per la salute, con effetti benefici ecc., 43,3%, ma presso le donne raggiunge il 47%) rispetto a quelli che premono sull’essere “senza” (non contenendo elementi negativi per la salute come conservanti, zuccheri in eccesso, grassi in eccesso ecc., 25,9%). Dopo molti anni di predominio del “free from” o “low-qualcosa” – con un atteggiamento del consumatore caratterizzato dal timore e quindi dal volersi difendere dalle negatività – sembra che finalmente si sia tornati a pensare all’alimentazione come vera e propria nutrizione, pensando a un mix equilibrato e completo di nutrienti. In un modo o nell’altro, comunque, il trend verso una maggiore attenzione alla salute tramite l’alimentazione o con altre scelte di vita e comportamento si conferma e si rafforza: il Covid-19 (pur con le limitazioni alle attività sportive, al movimento…) ha dato nuova importanza al nostro corpo (secondo McKinsey, il 32% degli italiani si impegnerà a consumare cibo più salutistico).

Sostenibilità difficilmente sostenibile
Un tema trasversale a quasi tutti i settori è quello della sostenibilità, intesa come ambientale, sociale ed economica. I dati raccolti negli ultimi mesi mostrano chiaramente che c’è stato uno spostamento dell’attenzione da quella ambientale – particolarmente “sentita” prima della fase Covid-19 – a quella sociale ed economica: è l’effetto dei timori della popolazione per l’indebolimento dei lavoratori e delle filiere. Resta vero che, tra le tre “gambe” della sostenibilità, quella che sta più a cuore è l’ambientale (56%-58%, a seconda delle rilevazioni), ma con una riduzione di 10 punti percentuali in due anni. Non solo: gli italiani sono solo in parte disponibili a spendere di più per prodotti sostenibili. È vero che percentuali elevate (72%-81%) della popolazione sono propense a riconoscere un prezzo maggiore per prodotti attenti all’ambiente, ai lavoratori, alle imprese della filiera in Italia e nel mondo, ma è anche vero (e troppo spesso viene ignorato o dimenticato) che coloro che riconoscono un plus di prezzo almeno del 15-20% sono spesso meno di un quarto dei consumatori (rendendo quindi difficilmente sostenibile la “vera sostenibilità”). Nel settore abbigliamento/accessori, ad esempio, la sostenibilità sociale e quella economica sono ora a pari livello di rilevanza e hanno superato quella ambientale e il 33,5% del campione intervistato a maggio 2021 riconosce almeno un +15% di prezzo per prodotti davvero sostenibili.

E-commerce? Sì, meglio se di quartiere
Un altro tema trasversale ai settori – e con forti punti di contatto con quello della sostenibilità – è quello dell’e-commerce. È stato oggetto di maggiore attenzione da quando la pandemia è scoppiata in Europa e sembra aver lasciato cambiamenti rilevanti: non è solo la crescita impetuosa del ricorso agli acquisti online (quasi per obbligo in alcune fasi della pandemia), ma è il fatto che per molti consumatori è stata una “prima volta” e che c’è la diffusa intenzione di continuare a farlo; si nota l’apertura a questo canale di acquisto da parte di fasce anziane o tardo-adulte; l’espansione a un numero molto maggiore di categorie; la richiesta molto superiore al passato di un servizio di qualità (non solo veloce e flessibile nelle consegne, a casa e in ufficio, con il 54% degli intervistati che gradisce la soluzione “locker” in strada, ma anche con un customer care accessibile e reattivo). Si è discusso ampiamente del ruolo di Amazon e di altri attori affini, perdendo di vista un’idea potenzialmente disruptive: quella di un e-commerce di quartiere o di comune che unisca i produttori e i negozianti locali, ottiene un favore di gran lunga superiore all’e-commerce generalista e di grandi dimensioni (alla Amazon, appunto). Il 62% preferisce la soluzione “local”, il 35,5% quelle “global”. Nel mezzo si collocano i servizi di e-commerce di un’azienda/brand (51,8%) e quelli della grande distribuzione (50,7%). Trasversalmente emerge l’interesse per soluzioni di fidelizzazione, in particolare per sconti ai clienti fedeli. Idea che apre la strada a un rapporto più diretto e continuativo tra domanda e offerta, con la possibilità di offrire prodotti da provare, diversi da quelli abitualmente acquistati dal singolo consumatore in quella gamma, servizi di informazione e di “consulenza all’acquisto” ecc.). Questo è vero anche nel settore moda: il 37,8% degli intervistati è aperto a soluzioni di “acquisto con abbonamento”.


E il retail tradizionale?
Oltre all’ipotesi di sviluppo tramite e-commerce, il retail sembra destinato a una graduale transizione: alcuni elementi portati dal Covid-19 resteranno (l’attenzione all’igiene non sembra destinata a diminuire visto che i cittadini si aspettano un miglioramento complessivo sotto questo punto di vista anche dopo la fine della pandemia), altri che si stavano manifestando prima del 2020 sembrano accelerare. Tra questi ultimi c’è la richiesta di un checkout rapido e comodo, in buona parte basato sull’utilizzo di mezzi di pagamento digitali, soprattutto quelli contactless, che, per due terzi degli intervistati a maggio 2021, uniscono velocità e garanzia igienico-sanitaria in una fase in cui il contante è visto con crescente negatività: (il 10% degli italiani vorrebbe smettere di utilizzarlo in toto). Il modello vincente non sembra essere quello dell’automatizzazione completa di alcuni negozi (come mostrato da Amazon Go e da altre soluzioni, anche in Europa) perché solo un italiano su sei si dimostra fortemente interessato, mentre prevalgono timori per la privacy, soprattutto per la perdita di posti di lavoro nei negozi. Il negozio ideale del futuro è digitalizzato per le informazioni, per le prove virtuali ecc., ma resta al centro la figura del negoziante, che diventa sempre meno venditore e sempre più assistente personale, consulente e creatore di esperienze. E per contrastare la crescita dell’e-commerce il negozio deve diventare multisensoriale secondo più della metà degli italiani: in particolare è interessante notare come sia gradita l’ipotesi di punti retail che mettano al centro non solo stimoli uditivi e visivi (anzi, questi ultimi sembrano aver “stancato” parte di consumatori), ma sempre più gustativi e, soprattutto, olfattivi.

Dieta digitale: tecnologia qb
Infine, non possiamo non accennare al possibile riflusso digitale: dopo l’abbuffata dell’ultimo anno e mezzo, cresce il numero di cittadini che vogliono usare le tecnologie digitali quando necessarie e in grado di dare valore aggiunto, ma non vedono l’ora di tornare a una vita face-to-face, alla fruizione di contenuti culturali di persona, alla partecipazione a eventi (la forma di comunicazione che più ha avuto impatto negativo nella pandemia). Non stupisce, infatti, che le proposte di esperienza di punto vendita a distanza, come la visita virtuale dei negozi, personal online shopper, piacciano fortemente solo a una piccola parte dei consumatori, così come siano sostanzialmente rigettate le proposte di turismo “digitale”, mentre è cresciuta fortemente la richiesta di proposte di location a bassa intensità turistica e di turismo di periodi brevi in zone non lontane dalla propria residenza.

Supermercato come Discount
È ormai consolidato lo spostamento di buona parte dei consumatori dal modello del supermercato classico a quello del discount moderno: in verità nella mente dei consumatori le differenze si fanno sempre più limitate e spesso le catene che gli esperti definiscono “discount” non sono più considerate tali dai frequentatori. Inoltre, emergono segnali di crescente spostamento verso superfici di medie dimensione e verso la prossimità, un apprezzamento crescente per le Private labels (anche se ancora molto inferiori a quanto potrebbero essere secondo i consumatori stessi), e vari segnali di peggioramento del profilo di immagine di alcune catene storicamente caratterizzate da un’immagine molto forte, a vantaggio di attori un tempo minori e di new comers.

Personalizzato e noleggiabile: così è l’abbigliamento che piace ai giovani
In alcuni settori si vede chiaramente la tendenza alla personalizzazione del prodotto e del servizio: è il caso dell’abbigliamento, dove poco più di un intervistato su due (51,5%) gradirebbe una personalizzazione da parte del produttore. In questo settore si manifestano altri due trend interessanti, che possono essere letti come cambiamento culturale, ma anche come effetto di un’offerta maggiore in queste direzioni: il primo è il prova-e-rendi a basso costo (piace al 49,4%, soprattutto alle donne e ai giovani), pur essendo in contrasto con i trend “ecologici” di riduzione dei movimenti non essenziali delle merci; il secondo è il noleggio, che rende possibile l’accesso a beni di fascia superiore per brevi periodi di tempo (gradito al 32,1% della popolazione, con un forte picco nelle regioni meridionali).




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