L’economia mondiale è entrata nel 2016 in un clima di incertezza sui mercati finanziari e con la domanda globale in rallentamento rispetto alle attese. Le principali economie non europee (Usa, Cina e Giappone) hanno presentato dati non esaltanti nell’ultimo trimestre 2015, mentre i paesi emergenti, al di fuori di Cina e India, hanno ormai arrestato il loro ciclo espansivo: pil in crescita di appena 1,7% medio nel 2015. A inizio anno, l’effetto complessivo di una serie di fattori temporalmente concomitanti si è scaricato, anche sulla scia di reazioni emotive, sui mercati finanziari. Ancora una volta sono state necessarie le parole rassicuranti di Draghi a rasserenare il clima.
Fuori dal tunnel?
In realtà, a un’analisi fredda e razionale dei driver economici ci si rende conto che il momento economico a livello mondiale non giustifica una volatilità così accentuata. Pur nell’ambito di una ripresa economica ancora debole e con alcune situazioni critiche, lo scenario globale è sostenuto da fattori intrinsecamente positivi. Le banche centrali nel loro complesso continuano a garantire elevata liquidità al sistema bancario e all’economia. Il basso prezzo del petrolio e delle commodity rappresenta un beneficio per le maggiori economie, pressoché tutte importatrici nette di risorse fossili e naturali. I paesi emergenti mostrano nel loro complesso un rallentamento della crescita, ma pur sempre sostenuta dall’area asiatica, Cina e India in particolare, proprio i paesi più grandi e popolosi.
Gli affanni delle grandi potenze
Nonostante ciò, nella seconda metà del 2015 le incertezze hanno progressivamente iniziato a prendere il sopravvento. Negli Stati Uniti la crescita è rallentata, a causa della forza del dollaro e dell’abbattimento degli investimenti nel settore petrolifero. Il Quantitative easing (Qe) in Eurozona e in Giappone si mostrava meno efficace di quanto preventivato dalle banche centrali. La Cina ha iniziato a sollevare timori negli osservatori sull’affidabilità dei dati ufficiali e sulla capacità delle autorità cinesi di guidare sia lo sgonfiamento della bolla immobiliare che il pianificato ribilanciamento tra investimenti e consumi privati.
In sintesi, nella fase finale del 2015 l’economia reale globale mostrava qualche segno di debolezza rispetto alle attese, ma pur sempre seguendo un percorso coerente con i fondamentali già noti.
Non è azzardato pensare che il nervosismo degli operatori e i programmi di vendita automatici abbiano giocato un ruolo fondamentale nel crollo di inizio 2016. In un’economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustificato dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiamenti nelle aspettative provocano grandi spostamenti di capitali e quindi una volatilità non coerente con l’andamento dell’economia reale.
Le sfide europee
Questo quadro globale, moderatamente positivo ma incerto, presenta oggi per le prospettive dell’economia europea una serie di sfide che i numerosi conflitti interni (applicazione del Fiscal compact, emergenza rifugiati, gestione del settore bancario) rendono di ancor più incerta soluzione. Il sistema produttivo e la domanda interna dell’Eurozona stanno mostrando segni di resilienza che fanno sperare in un 2016 con un tasso di crescita del pil vicino al 2%, almeno in uno scenario privo di shock esterni. La politica monetaria espansiva della Bce è probabilmente il motore principale di questa resilienza. Due i benefici principali ottenuti dalla politica della Bce. Da un lato i bassi tassi di interesse hanno portato al deprezzamento dell’euro, con conseguente attenuazione dei rischi di deflazione e di miglioramento della competitività di prezzo delle imprese, aiutando la bilancia commerciale e dando respiro alla produzione e all’occupazione. Dall’altro il Qe ha dato ossigeno alla sostenibilità e alla capacità creditizia del sistema bancario, migliorando il clima di fiducia delle imprese (ai massimi degli ultimi cinque anni) e delle famiglie, quest’ultima sospinta anche dal progredire dei livelli occupazionali. Tuttavia, la politica della Banca centrale europea non sta dando i frutti sperati proprio nei confronti di quello che è il suo obiettivo principe, ossia riportare l’inflazione dell’eurozona intorno al 2%. Il crollo del prezzo del petrolio, se da un lato aiuta la competitività del sistema produttivo e la capacità di spesa delle famiglie, sta rendendo l’obiettivo della Bce ancora più difficile da raggiungere e nel 2016 l’inflazione media nell’area continuerà a essere intorno allo zero. Le attese per il 2016 sono quindi per un prolungamento e ampliamento della politica espansiva della Bce.
Nonostante la debolezza dello scenario globale, il sistema produttivo e la domanda interna dell’Eurozona stanno mostrando segni di resilienza che fanno sperarein un 2016 con un tasso di crescita del pil vicino al 2%, almeno in un quadro privo di shock esterni.
Buoni auspici
Con queste premesse in chiaro-scuro sull’ambiente esterno, l’economia italiana si affaccia al 2016 in buon progresso. Dopo ben 14 trimestri di recessione, il 2015 ha finalmente rappresentato un anno di ripresa economica, seppur moderata. anche per l’Italia gli indicatori congiunturali sono sostanzialmente positivi e anticipano un’ulteriore crescita per il 2016, nonostante l’impatto della crisi dei mercati finanziari di inizio anno. Come si evince anche dal grafico sopra, gli indicatori italiani di fiducia delle imprese (Pmi-markit, Esi) alla fine del 2015 si sono posizionati su livelli molto incoraggianti, ritornando a quelli di cinque anni fa, mentre gli indicatori Iesi e Istat per le famiglie sono addirittura tornati ai livelli del 2007. Allo stesso tempo, nel 2015 i consumi delle famiglie sono stati supportati da prezzi stabili e da un andamento incoraggiante del mercato del lavoro, con il tasso di disoccupazione ai livelli minimi da tre anni.
Secondo la maggior parte degli osservatori, in assenza di shock esterni il numero di occupati in Italia è destinato a salire nei prossimi trimestri, dando un’ulteriore spinta ai consumi delle famiglie (questi ultimi dovrebbero crescere dell’1,5% nel 2016, in aumento rispetto al circa 1% del 2015), nonostante qualche apprensione sul fronte della disoccupazione di lungo periodo (ossia quella relativa a chi esce dal mercato del lavoro in via pressoché definitiva). La spinta continua a essere stentata dal lato degli investimenti, il cui basso profilo è in realtà un problema mondiale, ma particolarmente accentuato in Europa. Alla problematica globale della scarsezza di nuove tecnologie ad alto tasso di capitale, si aggiunge per l’Europa, e in particolare per l’Italia, la perdurante precarietà del sistema bancario e della disponibilità di credito, nonostante l’ossigeno pompato nel sistema dalla politica espansiva della Bce. La ripresa degli investimenti in Italia è legata a una soluzione efficace del problema delle sofferenze bancarie (la Bad Bank potrà essere un aiuto significativo) e a un prolungato mantenimento degli alti livelli di fiducia di consumatori e imprese. Solo i prossimi mesi ci diranno se il crack azionario di inizio anno ha intaccato la fiducia in maniera sostanziale e duratura.
Anche dal lato della produzione, l’Italia presenta una situazione moderatamente positiva. Il settore manifatturiero, dopo un 2014 piatto, ha ripreso a crescere nel 2015 di un modesto 0,5%, ma gli ordinativi nell’ultima parte dell’anno sono apparsi alquanto brillanti, con crescita a due cifre a dicembre. E anche la crescita dell’export oltre il 3,5% va salutata con soddisfazione, considerato che rappresenta un miglioramento (anche qui minimo, ma pur sempre un miglioramento) della quota italiana del commercio mondiale.
Cicatrici ancora non rimarginate
Seppure il 2015 abbia rappresentato l’anno della transizione da una lunga recessione a una crescita moderata, rimane comunque il punto interrogativo sui motivi per cui il Paese non riesce a sfruttare appieno i fattori esterni favorevoli. Il primo dei motivi è l’eredità non solo della recessione del 2008 ma anche di quella dei 14 trimestri precedenti il 2015. Una crisi così profonda e prolungata lascia cicatrici non immediatamente rimarginabili, in termini di capacità produttiva perduta, di margini di profitto erosi pesantemente e non recuperabili facilmente in un contesto deflattivo, di tassi di risparmio da ricostituire, di crediti deteriorati e sofferenze bancarie dovute a fallimenti o a difficoltà gravi di imprese e famiglie, acuiti da un decennio di caduta del settore costruzioni. L’eredità delle due recessioni si è poi appesantita a causa dello squilibrio delle finanze pubbliche e della conseguente impossibilità di metter mano a politiche fiscali chiaramente espansive. Nel 2015 il deficit pubblico ha mostrato un miglioramento rispetto al 2014 (dal 3 al 2,6% del pil), ma non è stato possibile utilizzare a fini espansivi la favorevole evoluzione della spesa per interessi (determinata dalla politica espansiva della Bce).
Le previsioni per il prossimo biennio
In sintesi, l’andamento dell’economia italiana nel prossimo biennio è legato principalmente al rafforzamento della domanda interna, guidata dal consolidamento della fiducia e da politiche di bilancio di sostegno della crescita. In questo senso si è mossa la legge di stabilità 2016 del governo Renzi, che sul deficit di bilancio ha ottenuto anche della benvenuta flessibilità aggiuntiva dalla commissione europea, compreso il rinvio al 2018 del pareggio di bilancio. Oxford Economics stima un rapporto deficit/pil per il 2016 del 2,4%, incluse le misure sulla sicurezza anti-terrorismo. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (l’ufficio indipendente attivato da un anno seguendo le regole della Ue) «il disegno di legge di stabilità comporta, come manovra netta, un peggioramento del saldo delle amministrazioni pubbliche nel 2016 di 14,6 miliardi» (ossia una manovra espansiva di quasi un punto di pil). Forse si potrebbe fare di più, ma lo spazio di manovra è obiettivamente ristretto, a causa dei vincoli imposti dall’ingente debito pubblico del Paese, il cui abbattimento rispetto al pil è reso ancora più complesso dal contesto deflazionistico. L’impianto della manovra conferma l’intenzione del governo di sostenere l’economia attraverso la riduzione del carico fiscale. Dato il vincolo di bilancio, questo obiettivo nel medio periodo rimane però legato ai tagli alla spesa, ossia alla spending review, purtroppo molto ridotta rispetto alle ipotesi ventilate inizialmente. Una razionalizzazione significativa della spesa della pubblica amministrazione non può che passare anche attraverso la riduzione del ruolo dello stato nell’economia e del numero di dipendenti, manovre rese difficili dalle ricadute sociali e di consenso. E in un paese dove una quota importante della popolazione vede l’uscita dall’euro come la panacea di tutti i mali, perdere consenso farebbe rischiare all’Italia un passo falso di una gravità irreparabile. Il trade-off tra consenso, razionalizzazione della spesa pubblica e riduzione delle tasse rimane quindi il rompicapo su cui si giocherà il futuro del governo e di Renzi.