L’ITALIA SI È ABITUATA A SINTETIZZARE IL SUO PRESENTE ECONOMICO con la parola “crisi”, ma è possibile che una “crisi” duri dieci anni? Anche affidandoci al solo, insufficiente, grafico del pil (figura 1) dobbiamo distinguere almeno due periodi nella storia economica recente del nostro paese: la doppia crisi 2009-2012 e la stagnazione successiva.
La parola stagnazione evoca tuttavia l’idea di una tranquilla e pigra stabilità, nascondendo la realtà della fase economica che stiamo vivendo, fatta di crisi irreversibili di aziende, interi settori e territori periferici e crescita significativa di altre aziende, settori innovativi e alcuni territori urbani.
È utile perciò guardare le sfumature, capaci di dipingere un risultato di crescita vicino sì allo zero, ma generato da una somma di fattori positivi e negativi.
Un Pil a macchia di leopardo
Se scomponiamo la fotografia del pil nelle sue macro-componenti settoriali la storia appare più chiara: gli anni di crisi sono stati negativi per tutti, ma la caduta profonda ha riguardato l’industria e soprattutto le costruzioni, in modo marginale i servizi e l’agricoltura. E negli ultimi tre anni le costruzioni sono rimaste in territorio negativo, mentre servizi e agricoltura stanno conoscendo una crescita apprezzabile (figura 1).
L’analisi del settore edilizio e immobiliare è paradigmatica: come si poteva credere che il ritmo di crescita di nuove costruzioni fosse sostenibile in assenza di crescita demografica e in presenza di fenomeni di delocalizzazione di molte produzioni manifatturiere? Il fenomeno di acquisto della prima e della seconda casa poteva essere permanente? La crescita basata sul consumo di suolo è stata realmente tale o ha trasferito sulle generazioni future una serie di oneri ai quali ora dobbiamo porre rimedio?
Questa ipotesi di crisi strutturale si applica anche a molti settori industriali tradizionali, in cui per molti anni la tenuta dei volumi ha nascosto un progressivo spostamento dal prodotto finito alla componentistica e alla sub-fornitura, con erosione corrispondente dei margini e della capacità innovativa.
La difficoltà di distinguere crisi congiunturali da debolezze ed evoluzioni strutturali si associa anche alla convinzione diffusa che industria e costruzioni siano la parte prevalente della nostra economia.
I servizi servono al Paese
Siamo certamente un Paese con una grande presenza (e un futuro potenzialmente importante) nell’industria, ma come tutti i paesi sviluppati la parte preponderante dell’economia riguarda i servizi: da quelli cosiddetti “di mercato” (escludendo quindi i servizi pubblici e il terzo settore) dipende quasi il 60% del valore aggiunto italiano (figura 2).
Oltre che alle situazioni di crisi occorre quindi guardare ai settori che funzionano, quelli che garantiscono la tenuta del nostro sistema economico e nei quali vanno ricercate le opportunità di crescita.
L’opinione più diffusa è che le uniche aziende in grado di crescere siano quelle che esportano, sottintendendo che si tratti di beni: l’analisi dei dati mostra come ciò sia certamente vero, ma riguardi anche i servizi, per i quali peraltro sarebbe più interessante conoscere il grado d’internazionalizzazione delle aziende che non la dimensione riduttiva dell’export (figura 3).
Che l’internazionalizzazione traini la crescita italiana lo notiamo anche dal settore turistico, in forte crescita benché inferiore ai tassi molto elevati riscontrabili in altri paesi (figura 4).
Segnali positivi per l’Italia
Le analisi e gli approfondimenti specifici del settore dei servizi di mercato non sono frequenti nella comunicazione economica del nostro Paese, concentrata in modo strabico sull’industria. Con questa ricerca, condotta in collaborazione con Bureau Van Dijk utilizzando il loro database Orbis (che analizza i bilanci delle società di 227 paesi), abbiamo voluto cogliere la doppia occasione di un focus sui servizi e di rappresentazione di una parte rilevante dell’Italia che cresce.
Servizi privati: le aziende up
Il primo campione utilizzato analizza le mille aziende di servizi più grandi, con esclusione di banche e assicurazioni: si tratta di società con oltre 150 milioni di fatturato, il cui aggregato è di oltre 1.000 miliardi e il valore aggiunto di circa 250 miliardi (figura 5).
La crescita in atto nel triennio 2013-2015 è molto evidente: ricavi +4,2%, Ebitda +5%, valore aggiunto +2,3%. Anche il contributo alla crescita dell’occupazione è stato significativo: allora davvero esiste un’Italia che funziona e si sviluppa, tutt’altro che marginale!
È anche significativo il dato relativo al debito bancario, segnale della maggiore selettività con cui le banche stanno gestendo gli affidamenti.
La crescita dei servizi non è certo una peculiarità italiana, ma le performance delle nostre aziende non sfigurano rispetto alla media delle prime mille aziende di servizi a livello globale, che vede negli stessi settori, per le aziende più grandi, una crescita dei ricavi del 9,2% e dell’Ebitda dell’8,1% nello stesso periodo. Teniamo conto del fatto che queste aziende sono di maggiori dimensioni medie e che tra i 227 paesi considerati ce ne sono numerosi in via di forte sviluppo (figura 6).
Servizi privati: le aziende dei dirigenti Manageritalia
Il secondo campione è costituito dalle società, tra quelle comprese nel primo, che hanno almeno un manager al quale è applicato un contratto nazionale sottoscritto da Manageritalia. Sono 392 aziende e il dato riflette il fatto che in alcuni settori dei servizi si applicano altri contratti collettivi nazionali o i manager non sono dirigenti.
Le performance di queste aziende sono ancora più positive: +5% di crescita dei ricavi e addirittura +18,2% dell’Ebitda. Analogamente sono maggiori anche la crescita dei dipendenti e del valore aggiunto. L’unico dato in controtendenza è la diminuzione del rapporto tra debito bancario e fatturato, ma alla luce dei dati precedenti va probabilmente letto nel senso positivo di diminuzione dell’indebitamento netto grazie a una forte generazione di cassa (figura 7).
Pmi e manager: prospettive incoraggianti
Per verificare quanto incida la dimensione aziendale abbiamo poi analizzato un terzo campione di società di servizi che applicano i contratti di Manageritalia, analogo al secondo ma esteso a tutte le società con fatturato superiore ai 45 milioni (circa 1.000).
Le performance di queste piccole e medie aziende segnalano dati analoghi, addirittura un po’ migliori, e identificano un settore in ottima salute, molto dinamico (figura 8).
Non è certo l’unica condizione sufficiente, ma possiamo dire che le aziende terziarie con veri manager stanno ottenendo ottimi risultati in un Paese spesso dipinto come “stagnante” e che il numero di manager, relativamente basso rispetto ad altri paesi, è un freno alla crescita.
Spesso si dice che la causa risiede nel numero elevato di aziende familiari, ma la struttura proprietaria delle aziende italiane non è affatto anomala, come non lo è il fatto che nella maggior parte di esse il capo azienda appartenga alla famiglia che la controlla. L’anomalia italiana sta nel numero totale di manager “di famiglia” in queste aziende: ben due terzi rispetto al 25-35% di Francia, Germania e Spagna.
Se ritorniamo al grafico del pil possiamo renderci conto di quanto sia fuorviante e autolesionista dipingere l’Italia come un paese in declino inarrestabile: le fasi di trasformazione sono sempre difficili e dolorose, ma è di grande aiuto guardare più spesso a chi ce la fa, a chi ha trovato vie e soluzioni efficaci.
Tra questi, e non ai margini, ci sono i nostri manager.