Il fronte delle priorità

A noi, e a chi si vorrà unire, spetta un compito difficile: mantenere la calma, non fare sconti, obbligare il governo ad approfondire proposte e dossier, bloccare con forza i tentativi avventurosi

Nell’inedito ruolo di opposizione, addirittura anche in piazza, il “Partito del PIL” battezzato da Dario Di Vico o “quelli che hanno qualcosa da perdere”, secondo Antonio Polito, sono un po’ spaesati.

Istintivamente si ritraggono – ci ritraiamo – di fronte a etichette datate come “borghesia”, “moderati”, “élite”, “classe dirigente” e iniziamo a interrogarci su cosa ci unisce e se c’è una comune idea di futuro. Siamo infatti più abituati a coltivare le nostre identità e, chi più chi meno, a difendere un ruolo nella società, rifiutando di scomparire nella massa. Individualisti e un po’ corporativi, siamo oggi sempre più convinti che questo sia un limite. 

Quello che abbiamo da perdere è il frutto del nostro lavoro e al massimo anche quello dei nostri genitori e nonni, non siamo eredi di antichi casati. Tra di noi ce n’è più di uno che ha perso tutto o quasi, ed è poi faticosamente ripartito.

Quasi sempre impegnati a fare altro, ci ritroviamo nostro malgrado all’opposizione: “E ora che facciamo? Chiedevano di lasciarli lavorare, ma non sembra che vogliano davvero farlo. A meno che non sia un lavoro arringare i rispettivi ultrà…” e molti di noi sperano di abbandonare rapidamente questo ruolo scomodo, auspicando di veder riconfluire i “nuovi barbari” nelle placide schiere di centrodestra e centrosinistra.

Ma questa volta – ha ragione Di Vico – non sarà possibile ritornare ai vecchi schemi, né in Parlamento né soprattutto fuori: una volta aperto l’otre dei venti populisti non basta rimettere il tappo. 

A noi, e a chi si vorrà unire, spetta un compito difficile: mantenere la calma, non fare sconti, obbligare il governo ad approfondire proposte e dossier, bloccare con forza i tentativi avventurosi. Superare le nostre idee politiche e le priorità settoriali, che continueranno a dividerci, e puntare a indicare poche grandi priorità comuni.

Nessuno nega la possibilità di sperimentare nuove ricette politiche alle forze di maggioranza e a un governo da esse eletto: occorre però che abbiano coscienza del terreno e delle regole del gioco, che non si cambiano come gli abiti di stagione. L’essenza più profonda della democrazia non risiede nel singolo voto e nella maggioranza di turno, sta nel concatenamento di voti e maggioranze, ciascuna delle quali raccoglie il testimone da quella precedente. E ha diritto sì di cambiare direzione, ma conoscendo velocità e stazza della nave che guida, rappresentando la nuova rotta e i mari che solcherà.

Lo Stato non è un’azienda, e neppure in azienda il cambio dell’amministratore delegato consente trasformazioni strategiche dall’oggi al domani, se non al prezzo di gravi discontinuità.

Il popolo del lavoro – che genera il PIL – non è insensibile al desiderio di cambiamento che esprimono tutti gli italiani: vuole aria fresca e pulita negli uffici pubblici, efficienza, decisioni trasparenti, strumenti e linguaggi moderni. Ha molto ben chiara la necessità di operare manutenzioni straordinarie del nostro territorio e delle infrastrutture. Non si arrende, ma comincia a perdere la speranza di riscatto di una generazione di giovani e di un sud e un centro sempre più marginali.

Va ascoltato sui temi di modernizzazione della PA e sugli investimenti, ne va rinvigorita la speranza dove serve riscatto. Nessuna delle proposte avanzate finora da questo Governo sembra avere questa capacità, come alla prova dei fatti non l’hanno avuta quelle dei governi immediatamente precedenti.

Ripuliamo il tavolo da gioco e puntiamo tutto su scolarità, educazione, formazione, partendo proprio dai territori più svantaggiati. Un piano intensivo, concentrato sui giovani e sui contenuti tecnico-scientifici. Azzeriamo il tavolo del braccio di ferro europeo, riportiamo ai pamphlet e ai blog i profeti No-Euro e gli apprendisti stregoni macro-economici. Spostiamo tutta la discussione con l’Unione Europea sulla necessità di un programma di rapida crescita del capitale intellettuale nelle zone più difficili del nostro paese, ripensiamo profondamente la logica dei fondi europei, che per noi non ha funzionato. Per nostre colpe, probabilmente, ma ciascuno dei nostri partner capirà che abbiamo anche diritto di provare a mutarne la struttura, dopo tanti anni d’insuccesso.

Questo è il fronte che può e deve unire il popolo del lavoro e di coloro che vogliano farne parte “in tutti i sensi”, per dire sì a una ripartenza vera che punti su poche ma reali e concrete priorità. 

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