Nell’intervento a Jackson Hole in agosto, nel simposio organizzato ogni anno nelle montagne del Wyoming dalla Federal Reserve di Kansas City, Jerome Powell è stato realista: non avrebbe potuto alzare i tassi prima, come qualcuno gli rimprovera, perché avrebbe corso il rischio di rallentare la crescita e non avrebbe avuto adeguata copertura politica. Ha riconosciuto che la priorità è la lotta all’inflazione e che essa costerà sacrifici in mancata crescita e raffreddamento del mercato del lavoro. Ma ha realisticamente ammesso che ciò che accadrà ai tassi futuri è nell’ordine delle congetture: tutto gira attorno al prezzo del gas, una grandezza esterna al perimetro di intervento dei banchieri centrali.
L’origine delle crisi energetiche
L’intera storia del Novecento è stata modellata e orientata dalla lotta per la conquista delle fonti energetiche. All’inizio del secolo scorso, le trivelle dell’americana Standard Oil in America e della Anglo-Persian Company in Iran sostituivano il carbone e sovvertivano gli equilibri politici globali. Gran Bretagna e Germania realizzarono come in breve tempo i loro giacimenti di carbone non avrebbero più garantito l’indipendenza energetica, i nuovi carburanti derivati dal petrolio alimentavano i motori delle utilitarie come la Ford T, ma spingevano a maggiori velocità anche le nuove navi da guerra. Il petrolio accelerò la corsa e la competizione al controllo dei pozzi in Medio Oriente. L’importanza della nuova fonte di energia venne dimostrata nella Prima Guerra Mondiale, quando “diventò la risorsa per eccellenza del Ventesimo Secolo”, scrive lo storico Dan Tamir. In questa prima parte del XXI secolo le cose non sono cambiate. L’estrazione dello shale gas americano ha sfidato le esportazioni russe e scosso gli equilibri pluridecennali garantiti dall’Arabia Saudita, la guerra in Ucraina ha solo esacerbato una crisi energetica e strategica che era evidente: già nel 2021 la formidabile domanda cinese aveva sollevato il velo di Maya sulle strozzature nell’offerta.
Quale inverno ci attende?
Con realismo, per quanto sia sgradevole dal punto di vista dell’ambiente, bisogna riconoscere che la macchina della crescita globale ha ancora bisogno di combustibili fossili: da anni non sono più stati fatti investimenti importanti nell’estrazione e nell’esplorazione, oggi facciamo i conti con strozzamenti strutturali nella raffinazione. Lo sfasamento tra l’offerta e la domanda è una condizione destinata a prolungarsi nel medio periodo. Sarà un inverno difficile, ai prezzi del gas stellari si aggiungerà il rischio della riduzione, o sospensione, delle forniture dalla Russia. Il gas che brucia ai confini della Finlandia è plastica, immagine delle contraddizioni e della posta in gioco. Senza nessuna cura del futuro e dei rischi ambientali, si inonda di CO2 il ghiaccio dell’Artico e si profila con nitore il vero obiettivo della Russia: trasformare la crisi energetica in crisi economica, alimentando in tal modo il malcontento nelle pubbliche opinioni. Il prezzo del gas è l’arma più efficace nell’ormai scoperta guerra economica tra Russia e Occidente. Per quanto si acceleri il passo verso le energie rinnovabili e la ricerca di alternative alle forniture russe, c’è bisogno di tempo. Mancano soluzioni tecnologiche per lo stoccaggio dell’energia pulita e ci vorranno anni per la messa in funzione di mini-reattori nucleari come quelli previsti nel Regno Unito. Tutte le alternative richiedono tempo: non rivedremo presto l’energia a basso costo.
L’ombra dell’inflazione
È tempo di realismo anche per gli investitori. È difficile prevedere le dinamiche future dell’inflazione, in questi anni ne abbiamo sperimentato l’imprevedibilità e, proprio a Jackson Hole, lo scorso agosto, Powell parlava di inflazione “transitoria”. «La squadra che ritiene l’inflazione permanente sta vincendo», ha dichiarato il premio Nobel Richard Thaler qualche giorno fa, «ma forse stanno cantando vittoria troppo presto». Buona parte dei prezzi elevati è dovuta ai prezzi dell’energia e alle difficoltà nelle forniture causate dalla politica cinese della tolleranza zero e delle conseguenti chiusure, fattori che ci si augura siano temporanei. «Forse tra un anno ci saranno ancora scontri in Ucraina e ci sarà ancora il Covid in Cina» ha detto Thaler, «speriamo che non sia così e se uno o entrambi i problemi si attenueranno, potrei vedere i prezzi scendere».
Un atteggiamento all’insegna della cautela è da preferire
Per quanto riguarda le scelte di investimento, il realismo impone di adottare per il futuro prossimo un atteggiamento di cautela. Le variabili in gioco sono numerose, molteplici gli esiti possibili: quando è più difficile riconoscere i segnali dai rumori, vince chi sbaglia meno, chi controlla il gioco e non prende rischi eccessivi. Nel breve termine sono elevati i rischi di recessione in Europa, la dipendenza dalle forniture di gas dalla Russia rischia di mettere in crisi il modello di crescita tedesco basato su manifattura, esportazioni ed energia a basso costo. Con margini di manovra della Banca centrale europea più limitati rispetto ai colleghi americani, l’euro resterà probabilmente debole, mentre il biglietto verde resterà forte grazie alla migliore performance dell’economia americana e all’atteggiamento aggressivo della Federal Reserve.
Paesi emergenti e investimenti
Il realismo impone la prudenza nel breve termine, ma senza smettere di guardare, realisticamente, al medio e lungo periodo, superando le comprensibili ansie del “presentismo”. Le preferenze settoriali di più lungo termine si orientino a settori in grado di generare forti utili anche nelle fasi di bassa crescita, ad esempio quello tecnologico, o ad aree geografiche e paesi come quelli emergenti e la Cina. Gli emergenti pagano le conseguenze di due forti venti contrari: i costi dell’energia e il dollaro forte. D’altro canto, nel più lungo periodo il caso dei mercati emergenti come luogo di investimento non cambia: l’espressione “mercati emergenti” comprende aree e paesi tra loro molto diversi per sistemi economici e politici, la selezione e la gestione attiva sono strumenti irrinunciabili; molti paesi emergenti sono più avanti nel ciclo di restrizione monetaria; in termini aggregati, i tassi d’interesse, le valute e i mercati del credito degli emergenti restano a buon mercato.
La responsabilità dei governi
Un ultimo commento sulle scelte lessicali di alcuni giornali, ad esempio il Financial Times, che hanno scritto di “scommesse contro l’Italia”. Le parole sono importanti, non ci sono scommesse “contro” l’Italia: anche i mercati sono realisti, valutano il nostro debito, i segnali di recessione nell’Eurozona, l’incertezza delle vicine elezioni politiche, la nostra dipendenza dalle importazioni di gas, le dichiarazioni di intenti formulate nella campagna elettorale. È normale che da queste analisi derivino nuove valutazioni del rischio Paese e un re-pricing degli asset italiani. Non è mai colpa dei mercati, sono le scelte dei governi a determinare i destini delle nazioni.
Importanti avvertenze legali
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