Rischio recruiting – L’avanzata dei “Neet”
In Germania, circa 700mila giovani non fanno proprio una mazza. Non studiano, non lavorano. Insomma, sono inerti. Il fenomeno dei Neet (not in education, employment or training) preoccupa sempre di più l’Occidente e anche il mercato del lavoro, soprattutto per gli apprendistati. Sono giovani, generalmente tra i 15 e i 29 anni, che non sono impegnati in percorsi di istruzione, lavoro o formazione. Sarebbe un errore liquidare questo gruppo di persone inattive come “non membri degni” della società.
Uno studio di Bertelsmann mostra che tra i Neet ci sono sia “drogati” duri e puri che persone socialmente scollegate. Per le imprese, i Neet rappresentano una riserva di manodopera non sfruttata, a cui bisognerebbe rivolgersi più attivamente nei prossimi anni con azioni ad hoc, facendo capire che anche le persone senza titolo di studio o con “deviazioni” nel loro CV possono avere delle opportunità.
Rischio trade war – Dazi e mazzi
Si profila una guerra economica globale? Potrebbe, ma non è detto. Per ora, la storia dei dazi assomiglia più a una storia degna delle peggiori sitcom americane, ma intanto questo continuo tira e molla delle tariffe, forse strategico, forse solo tattico, crea turbamento dell’equilibrio economico già compromesso di suo dalle guerre e crisi assortite. Fare previsioni diventa difficile. Indubbiamente, stiamo assistendo a uno scontro unipolare vs multipolare che va ben oltre la figura di Trump, che è solo un catalizzatore e acceleratore dello “spirito geopolitico del tempo”.
È la guerra, non solo commerciale, del nostro tempo. Come fa notare Alan Beattie, analista del Financial Times, se tutte le principali economie, come risposta, cercano di aumentare le esportazioni e ridurre le importazioni allo stesso tempo, ciò potrebbe causare una recessione globale. Insomma, bisogna essere pronti e attrezzati a contromisure e molti piani B.
Rischio reshoring – Torna il “made in”
E con esso, forse, nuovi guai. Negli ultimi decenni la provenienza di un prodotto ha giocato un ruolo sempre meno importante. Tuttavia, da quando Trump ha lanciato la sua campagna tariffaria senza precedenti, il consumo patriottico ha conosciuto una rinascita in tutto il mondo. La catena danese di supermercati Salling sta etichettando i prodotti europei con una stella sul cartellino del prezzo; al Fairmont Waterfront Hotel di Vancouver, i clienti canadesi ricevono uno sconto del 15% e un buono pasto di 50 dollari; mentre il movimento “Buy from EU” invita i cittadini ad acquistare solo prodotti europei. Pochi esempi non fanno un trend, ma intanto i paesi e i blocchi si stanno isolando l’uno dall’altro. I governi chiedono ai cittadini di acquistare più prodotti locali e l’etichetta “Made in …” sta rapidamente riacquistando importanza.
Ma non tutto fila liscio. È discutibile se i clienti paghino davvero di più per i prodotti nazionali. Negli Stati Uniti, il 50% dei cittadini dichiara di essere disposto a farlo, tuttavia, spesso c’è un divario tra il sondaggio e il comportamento sugli scaffali dei supermercati. Inoltre, per molti prodotti non esistono alternative nazionali. L’Europa, ad esempio, non ha un proprio sistema operativo per computer e servizi informatici. Il punto cruciale è che se il prodotto nazionale è inferiore, anche gli appelli patriottici sono inutili. Nel lungo periodo contano solo la qualità e il prezzo, come ha dimostrato l’esperienza passata.
Non solo. Anche pubblicizzare il “made in” può essere una strategia rischiosa. La Ford ha appena lanciato una campagna con lo slogan “From America. For America” e non “Made in America”. Per forza. Le catene di fornitura dell’industria automobilistica sono complesse e spesso è quasi impossibile stabilire la provenienza di un prodotto. Non a caso chi promette troppo rischia sanzioni elevate. È successo l’anno scorso al negozio di mobili Williams-Sonoma, che ha dovuto pagare una multa di 3,7 milioni di dollari Usa perché aveva falsamente etichettato come “Made in Usa” prodotti provenienti dalla Cina.
Rischio depopulation – Minaccia crollo demografico?
Esiste davvero un rischio di “collasso demografico globale”? Secondo quel mattacchione di Elon Musk sì, e ciò rappresenta per l’umanità una minaccia maggiore del cambiamento climatico. Parole forti, ma non del tutto infondate. In molti paesi emergenti la bomba demografica è ormai innescata.
Nel 2023, per la prima volta, in Messico sono nati meno bambini pro capite che negli Stati Uniti. Le famiglie si stanno riducendo anche in Medio Oriente, in Turchia e Tunisia e in alcune parti dell’Africa. Inoltre, il tasso di fertilità sta diminuendo un po’ ovunque per un’infinità di ragioni che qui non abbiamo spazio per trattare. Resta il fatto che tutto questo deve essere preso in considerazione in tutte le proiezioni sulle vendite e sul fabbisogno di personale.
Ad esempio, meno persone, soprattutto di qualità, significa anche meno innovazione, come avverte Charles Jones, economista dell’Università di Stanford. Tutti i possibili effetti positivi di una popolazione globale più ridotta sono vanificati da questo fattore. Se la fertilità rimane bassa, il tenore di vita diminuirà per tutti e il risultato finale potrebbe essere un “pianeta vuoto”, come avverte Jones in un documento che potete scaricare online (clicca qui per scaricare il documento The end of economic growth).
Tratto dall’ultimo numero di Dirigibile, l’inserto di Dirigente – La rivista di Manageritalia dedicato al futuro che è già presente. Clicca qui per leggere il numero di giugno di Dirigibile.