Cosa ho imparato dal mio innovation tour in Israele

Il modello di una vera e propria startup nation

Sono tornata da un viaggio di lavoro in Israele con i miei colleghi di IAG per incontrare centri innovazione e venture capital e il risultato è stato deprimente ed entusiasmante allo stesso tempo.

Deprimente perché in Israele tocchi con mano quanto l’Italia sia in ritardo su tutto il mondo hi-tech; entusiasmante, perché questo successo è stato costruito in pochi anni e, a guardar bene, indica la via di quello che potrebbe accadere anche in Italia.

Israele è stata definita “la startup nation”. Qui hanno sede oltre 300 centri di ricerca e sviluppo privati, inclusi quelli di Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Alibaba. Oltre l’8% della popolazione attiva lavora nei settori High-Tech, che producono il 12% del pil e il 43% dell’export.

Il 2022 è stato l’anno dei record per il venture capital: Israele, oramai “scaleup nation”, ha realizzato da sola quanto tutta l’Europa insieme. Qui sono stati fatti investimenti in startup per 26 miliardi di dollari, in Gran Bretagna 12,5, in Germania 5,3, in Francia 5,1, in Italia 1,5. In Israele nascono unicorni, con valutazioni di un miliardo, nel 2021 ne sono nati 80 (in Italia solo uno, Yoox, altre aziende fondate da italiani, sono andate all’estero per poter diventare grandi).

Impressionante per un paese il cui export principali 20 anni fa erano i pompelmi Jaffa!

Eppure questo è un paese con un mercato piccolo, con solo 9 milioni di abitanti, privo di risorse naturali, circondato da nazioni non ricche e non amiche, con le quali gli scambi commerciali sono complicati. Com’è possibile?

La chiave del successo dell’ecosistema israeliano è nella sinergia tra capitale umano, università, esercito e industria.

Innanzitutto è un paese giovane, con una popolazione in costante crescita e altamente qualificata. Oltre all’alto tasso di natalità, il paese continua ad attrarre persone da tutto il mondo, in un melting pot di culture differenti. Dopo il crollo dell’Urss, qui sono arrivati oltre un milione di russi; la popolazione era 4,5 milioni nel 1990, 6 nel 2000, 7,5 nel 2010, 9 oggi.

È un tratto della cultura ebraica dare grande importanza all’istruzione, e lo stato israeliano ha una spesa per istruzione sul Pil pari al 9,2%, contro una media OECD del 5,7% (in Italia è del 5,0%).

Eppure, anche qui oggi c’è carenza di talenti Stem. Il risultato sono retribuzioni cresciute a livelli altissimi e ponti d’oro per i profili tech disposti a trasferirsi in Israele.

Il paese è famoso per le sue università, che lavorano a stretto contatto con le aziende e i centri ricerca privati. Il technology transfer dall’università all’industria garantisce lo sfruttamento economico delle innovazioni sviluppate in campo universitario, fornendo risorse per finanziare la ricerca e dando vita a un flusso costante di nuove aziende tecnologiche. Esemplare il caso di Arc, il centro innovazione dello Sheba Medical Center (uno dei primi 10 ospedali al mondo), dove accolgono startup health tech, offrendo accesso alle strutture dell’ospedale in cambio di quote delle aziende.

La media dei ragazzi si diplomano a 18 anni, poi partono per 3 anni di servizio militare, dopo, se vogliono, continuano gli studi. Il servizio militare è così il loro primo lavoro, che li forma, gli dà responsabilità, crea una rete di relazioni fortissime, gli dà il tempo per decidere cosa vogliono fare dopo.

L’esercito funziona da primo selezionatore di risorse, con una grande competizione per entrare nei corpi scelti. Per esempio, uno dei più ambiti è l’Unità 8200, incaricata della cybersecurity: da lì sono usciti moltissimi startupper di successo… e molti milionari. La peculiarità è che le tecnologie sviluppate dall’esercito sono poi rese disponibili per l’industria civile e molte aziende sono create sfruttando innovazioni inizialmente sviluppate a fini militari. Una ragazza che durante il servizio militare si occupava di cartografia via satellite ha poi creato un’azienda, che, a partire da alcune foto, riesce a ricreare un modello tridimensionale del corpo umano, in modo da fare acquisti on line di abbigliamento senza sbagliare la taglia.

Pubblico e privato lavorano in sinergia: lo stato è a supporto dell’innovazione, con fondi e servizi, sul serio. Ce lo ha spiegato l’Israel Innovation Authority, ma lo abbiamo verificato parlando con Ofer Sachs, ex ambasciatore israeliano in Italia, ora attivo con Herzog Strategies.

L’Authority offre finanziamenti per la ricerca (non prende equity), sostenendo un terzo dei progetti di R&D delle aziende israeliane (tutte le dimensioni, da startup a corporation), prende rischi, investe anche in tecnologie early stage per coprire i fallimenti di mercato, lavora in matching con i privati, ha collaborazioni internazionali (partecipa anche ad Horizon Europe).

I dati parlano chiaro: la ricerca civile è quasi doppia rispetto alla media OECD: 4,5 vs 2,4 (in Italia è 1,4%). A questi numeri si aggiunge la ricerca militare, che pesa un ulteriore 5%. I settori in maggiore crescita: AI, Cyber, Digital Health, Industria 4.0, mobilità, foodtech, fintech.

Questo ecosistema è sostenuto da player finanziari di rilevanza mondiale, tutti incredibilmente nati negli ultimi 20 anni. Abbiamo incontrato fondi di venture capital top, Pitango e Catalyst, dove i fondatori ci hanno raccontato come siano partiti da zero. La piattaforma di crowdfunding OurCrowd, che lo scorso ha raccolto investimenti per 500 milioni di USD, è nata a Gerusalemme 10 anni fa.

C’è un rapporto strettissimo con gli USA, uno scambio costante di persone e aziende tra Tel Aviv e la Silicon Valley, tanto che Israele è il “supermercato dell’innovazione” per gli usa. Le corporate americane vengono a fare shopping di innovazione: acquistano startup, le integrano nel loro business, le portano negli Stati Uniti e da lì nel mondo.

Il percorso tipico delle startup israeliane di successo è di nascere intorno a un’innovazione tecnologica, a volte sviluppata a partire da un progetto militare, crescere fino a raggiungere un valore di 100-300 mln, per poi essere acquisita via M&A da una corporate americana (le IPO sono poche). Nel 2021 l’80% delle exit israeliane sono state fatte verso gli USA; per esempio Intel negli anni qui ha già fatto acquisizioni per un valore totale di 28 miliardi di USD. Ma ci sono anche aziende italiane: Enel a Tel Aviv ha il suo centro di open innovation Enel Innovation hub.

Siamo stati ricevuti dall’ambasciatore italiano in Israele, Sergio Barbanti, per parlare di startup e opportunità. Abbiamo cenato con Jonathan Pacifici, italiano e israeliano, fondatore di Sixth Millennium Venture. Ma alla fine cosa può imparare l’Italia del successo di Israele?

L’ecosistema dell’innovazione italiana di oggi è simile a quello di Israele di una decina di anni fa: siamo indietro, ma molti semi ci sono già. E poi alcune opportunità vengono da Israele stessa. Come ci ha espressamente detto Edouard Cukierman, Managing Partner di Catalyst, la competenza chiave di Israele è lo sviluppo di tecnologie (R&D, innovazione, progettazione) mentre è meno forte sulla parte a valle della catena del valore, sul go-to-market (produzione, marketing e commercializzazione). L’Europa è il mercato di sviluppo naturale per Israele, per vicinanza e dimensione, e l’Italia può essere un partner per sviluppare su larga scala le startup israeliane soprattutto su settori come health, food, automotive. Sembra impossibile? Abbiamo incontrato una startup che ci ha annunciato di aver appena aperto la sua sede europea… a Bari!

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