Simone Rosati, filosofo della complessità e teoria integrale
Nell’entusiasmo globale per l’adozione dell’intelligenza artificiale, c’è un dettaglio che sfugge ai radar di molti: non sono le tecnologie a fallire, ma le aspettative sbilanciate con cui vengono introdotte. Da un lato, l’intelligenza artificiale viene accolta come un miracolo risolutivo per ogni inefficienza, dall’altro, viene temuta come una minaccia all’identità umana. In questo oscillare tra euforia e paura, si perde il vero centro della questione: l’AI Adoption è prima di tutto una questione umana.
È questo il cuore della sfida che ho visto emergere in decine di organizzazioni con cui ho lavorato in questi anni: si implementano strumenti nuovi, ma con vecchie mentalità. Si introducono copiloti digitali, senza cambiare il modo di guidare. Si pretende produttività esponenziale, senza investire nella consapevolezza dell’utente. Il divario tra ciò che possiamo costruire tecnologicamente e ciò che sviluppiamo interiormente è crescente.
La doppia trappola dell’AI Adoption: idealizzare o demonizzare
L’intelligenza artificiale sta arrivando ovunque, ma l’adozione reale stenta. I motivi? Non solo tecnologici. Il rischio più grande è di cadere in una doppia polarizzazione: da un lato idealizzare l’umano e dall’altro demonizzare la tecnologia.
Oppure, esiste anche questo, fare l’esatto contrario. Idealizzare l’umano significa dimenticare i suoi limiti concreti: stress cronico, disattenzione, bias cognitivi, alta conflittualità e difficoltà ad adattarsi al cambiamento. Demonizzare l’umano, invece, porta a spingere per l’automazione cieca, scavalcando sensibilità, creatività, intelligenza relazionale: proprio ciò che rende un’organizzazione davvero viva.
Ma anche l’intelligenza artificiale può essere sovra esaltata o demonizzata. Da un lato, ci si aspetta che risolva ogni inefficienza, senza chiederci se chi la usa sia davvero pronto. Dall’altro lato, si teme una perdita di controllo o un mondo “disumanizzato”, ignorando le potenzialità trasformative di un buon uso dell’AI.
Il vero ostacolo all’AI Adoption, quindi, non è la tecnologia. È la mente con cui la si accoglie. E come ogni “grande cambiamento”, anche questo richiede educazione, linguaggio e consapevolezza, non solo strumenti.
Un nuovo mindset integrato per aziende più umane e più efficaci
Per uscire dalla polarizzazione tra “tutto umano” o “tutto artificiale”, serve un nuovo mindset integrato, capace di tenere insieme due verità apparentemente opposte: che l’umano va potenziato sia nella sua professione che nella sua evoluzione, non sostituito; che la tecnologia può farlo, se orientata con saggezza.
Noi lo chiamiamo “aritmetica delle polarità”: empatia senza efficienza genera inconsistenza; efficienza senza empatia crea ambienti freddi e impersonali; creatività senza precisione sfocia in caos emotivo; automazione senza adattabilità porta a obsolescenza rapida.
La vera sfida, oggi, è allenarsi a pensare in modo integrale, cioè a vedere le interazioni tra forze diverse come complementari e non nemiche. In questa visione, l’intelligenza artificiale non è né un’eroina né una minaccia, ma una lente d’ingrandimento sul nostro stesso modo di lavorare, pensare e collaborare. È lo specchio dell’utente e costringe a domandarci se siamo pronti a governare ciò che abbiamo creato.
La chiave mancante all’AI Adoption? Il fattore umano
Molte aziende stanno scoprendo a proprie spese che l’adozione dell’intelligenza artificiale non si gioca solo su tecnologie, budget e consulenti, ma su una variabile spesso trascurata: lo stato interiore di chi dovrebbe adottarla.
La verità è che nessuna AI può funzionare in ambienti dove l’essere umano è cronicamente stressato, disallineato o inconsapevole del proprio impatto.
E i dati lo confermano: secondo Gallup, l’Italia è ai vertici europei per stress da lavoro e disconnessione emotiva, con ripercussioni dirette sull’efficacia dei processi innovativi.
Ma allora perché, nonostante investimenti record, l’AI Adoption in troppe realtà stenta ancora a decollare?
Ci si ostina a non considerare il fattore umano come una leva strategica, preferendo approcci “one-size-fits-all” che ignorano le differenze di tipologia psicologica, livello di sviluppo, capacità di attenzione e di visione sistemica.
Un approccio sinergico tra lato human e lato tech parte proprio da qui: misurare il punto di partenza umano, con strumenti scientifici come gli assessment di personalità; adattare la formazione sull’AI alle caratteristiche dell’utente; allenare un mindset di coevoluzione tra umano e artificiale.
La formula è semplice, ma rivoluzionaria: l’AI Adoption non dipende solo dalla tecnologia disponibile, ma dalla maturità interiore di chi la utilizza.
Un esempio di sinergia: la rivoluzione della customizzazione evolutiva
Oggi tutti possono “istruire” un LLM (large language model, come ChatGPT) con le proprie preferenze. Ma un approccio sinergico fa diventare questa pratica un rituale al tempo stesso produttivo e trasformativo: ogni descrizione di sé inserita nel profilo AI è un atto di consapevolezza, un invito a riconoscere i propri pattern cognitivi, emotivi e valoriali.
Un esempio reale: una persona dal pensiero molto analitico e razionale chiede all’AI di scrivere un discorso sull’agile leadership. Un LLM standard glielo fornisce, con tono coerente alla richiesta. Un LLM customizzato, invece, aggiunge anche: “Attenzione: il tuo stile molto strutturato potrebbe rendere il messaggio sull’agilità meno fluido o coinvolgente.
Vuoi inserire un esempio concreto più empatico o giocoso?”. In questo modo, ogni prompt diventa uno specchio, e ogni risposta può essere anche un micro feedback evolutivo. L’AI Adoption dipende esattamente da questa sfumatura decisiva: l’AI che contemporaneamente fornisce feedback e stimolo alla crescita dell’utente.
Ma se guardiamo con lucidità alle difficoltà dell’AI Adoption nelle aziende italiane, non solo questo non sta accadendo, ma emerge un paradosso evidente: stiamo cercando di installare intelligenza in sistemi che trascurano il soggetto intelligente.
Le piattaforme ci sono. Le demo pure. Ma l’adozione profonda e trasformativa latita. Manca un’attenzione sistemica, operativa e misurabile al fattore umano.
Un invito all’azione: l’Hts (Human tech synergy) come test di intelligenza evolutiva
Viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza umana incontra, per la prima volta, una nuova forma di intelligenza. Un’epoca straordinaria, ma anche delicata: potremo accelerare evoluzioni mai viste, oppure replicare errori antichi con strumenti più potenti. Ecco perché, oggi più che mai, serve un mindset maturo, non polarizzato: né idealizzare né demonizzare, né l’umano né l’artificiale. Serve un approccio integrato, sistemico, evolutivo.
HUMAN & AI
Come interagire con l’AI per potenziare le competenze manageriali – 30 ottobre, 10-12 onlineIl workshop guida i partecipanti nell’integrazione tra il lato umano, le competenze manageriali e le potenzialità dell’intelligenza artificiale, con l’obiettivo di migliorare le performance individuali e di team. Attraverso strumenti pratici, offre strategie per superare le resistenze e favorire l’adozione di nuovi metodi di lavoro, portando a un impatto concreto e duraturo.
Durante l’incontro, i partecipanti acquisiranno maggiore consapevolezza su come interagire efficacemente con l’intelligenza artificiale per ottimizzare la produttività e i risultati. Inoltre, impareranno ad adattare le piattaforme AI alle esigenze aziendali, sostenendo una crescita continua a livello individuale e organizzativo.
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