A tu per tu con Carlo Cottarelli

Il vicepresidente Manageritalia e presidente Cida Mario Mantovani ha dialogato nel corso del Congresso di Manageritalia con il direttore dell’Osservatorio conti pubblici italiani e visiting professor dell’Università Bocconi. Una chiacchierata senza filtri sull’economia e le prospettive di sviluppo per il nostro Paese

MARIO MANTOVANI: La chiacchierata partirà da lontano, da un momento importante per la storia della nostra Organizzazione, quando avviammo un percorso di maggiore impegno della dirigenza italiana a supporto del Paese. In quegli anni incontrammo il presidente del consiglio Mario Monti, che avviò una stagione diversa della nostra politica italiana. Vogliamo spendere due parole su quell’epoca?
CARLO COTTARELLI: Sono state dette tante cose sbagliate su quell’esperienza. Nel 2011 l’economia italiana sarebbe stata attaccata senza motivo dagli speculatori. L’Italia in quel momento aveva pesanti problemi, in parte li ha anche adesso. Di fatto l’Italia cresceva meno degli altri paesi da 15 anni e aveva perso competitività. Diventava imperativo che i nostri costi di produzione e inflazione, una volta entrati nell’Euro, non crescessero più rapidamente che in Germania, ma così non è stato. Il debito pubblico era sceso troppo poco negli anni successivi al 2000. Nel 2011 avevamo il secondo debito pubblico più alto dell’area Euro. Quando la Grecia ha iniziato ad avere problemi, gli investitori si sono chiesti quale fosse l’altro paese con il debito più alto e contraddistinto dalla perdita di competitività. La risposta fu l’Italia. Lo spread era salito a 600 punti. Venne chiamato Mario Monti.
L’Italia in quel momento fece quello che doveva fare, non c’era altro da fare. Si dovettero aumentare le tasse, tagliare la spesa. Questo intervento non serviva nell’immediato per risollevare l’economia, ma per evitare guai peggiori.
Quello che è mancato e che ha causato grossi problemi a Monti è stato l’intervento dell’Europa, perché l’azione della Banca centrale europea per far scendere lo spread è arrivata tardi, per l’iniziale opposizione dei paesi del Nord-Europa. Ci sono voluti 9 mesi da quando fu formato il governo Monti prima che Mario Draghi potesse pronunciare la famosa frase “Whatever it takes”, dopo la quale lo spread ha iniziato subito a scendere. Sono stati 9 mesi devastanti per l’economia italiana: lo spread rimaneva alto ed era necessaria una stretta fiscale per risolvere i conti pubblici. Quei mesi difficili furono causati dai ritardi delle istituzioni europee, che poi però hanno sostenuto l’Italia con decisione, soprattutto con tassi di interesse bassi.

MM: Anche gli economisti erano sotto accusa?
CC: Con i professori non si va da nessuna parte, si ripeteva. Sicuramente era una stagione negativa per gli economisti, accusati di non essere capaci di fare previsioni. Ma noi economisti non sappiamo prevedere il futuro, se lo sapessimo saremmo molto più ricchi di quello che siamo! Nel 2008-2009 c’è stata una crisi globale che nessuno poteva prevedere, ma credo che i principali macro-economisti dell’epoca, a differenza di quanto accaduto negli anni 30, abbiano dato il consiglio giusto. Dicemmo che occorrevano politiche monetarie molto espansive e che occorreva incrementare la spesa pubblica.
Voi sapete che io sono il “tutore” della spesa pubblica, ma in quegli anni al Fondo monetario internazionale sono stato tra quelli che hanno suggerito ai grandi stati di aumentare il deficit pubblico del 2% rispetto al Pil. Così è stato e ha aiutato il mondo a uscire da una crisi che sarebbe stata più grave di quella degli anni 30.


MM: Anche noi dirigenti ci siamo presentati alla politica in quel periodo con l’idea che fosse necessario confrontarsi tra “competenti”, sia pure in ambiti diversi. Molto presto però ci siamo resi conto che apparentemente non serviva, che i leader cercavano soltanto di parlare alla “pancia” del Paese. E ancora oggi sembra sia così. Non si può parlare solo per numeri, ma come si coniugano “testa” e “pancia” nella comunicazione?
CC: È molto più facile parlare alla pancia anziché alla testa. Proprio sulla base di quello che è successo, quelli che parlano alla pancia dicono “guardate quello che hanno fatto gli esperti”. Ma la crisi non è stata causata dai tecnici. Se io sono malato chiamo il medico. È il medico che causa la malattia? La risposta di Di Maio nel 2018 è stata simile: “Guardate cosa hanno fatto gli esperti! Noi certo possiamo fare meglio”. Chi parla alla pancia ha una vita più facile perché a prima vista vengono suggerite ricette semplici da applicare: “Vi do il reddito di cittadinanza e Quota 100, non costa niente a nessuno, basta andare a Bruxelles e dire che siamo un paese sovrano”. Non è facile, ma occorre continuare a diffondere informazioni corrette, interpretare e spiegare come funziona l’economia; ed è per questo che in questa fase della mia vita io faccio il “predicatore”.

MM: Nel suo libro Pachidermi e Pappagalli lei parla di una fabbrica che produce informazioni semplificate attraverso un meccanismo supportato dai media e social che enfatizzano. Non ritiene che non siano mai circolati tanti dati economici come adesso?
CC: Il problema è come sono impacchettati questi numeri e come vengono presentati. La propaganda c’è sempre stata. Parlare alla pancia vuol dire usare concetti semplici, ripeterli. Condirli con immagini. L’immagine virale ha amplificato il tutto. Il populismo che parla alla pancia c’è sempre stato: Catilina era un populista e Giulio Cesare era un populista. Nel mio libro parlo di tecniche di produzione di bufale. Cito Adolf Hitler, che parlava alla pancia. Le persone hanno bisogno di concetti semplici. Bisogna ripetere concetti semplici. Con gli strumenti della rete si usano le immagini e questo funziona benissimo. Oggi sembra che il neuromarketing e le tecniche della pubblicità applicate al web mirino ad alcune caratteristiche degli individui in maniera scientifica. Bisognerebbe imparare a usare questi strumenti. Ci sono tanti giovani che stanno cominciando a usare questi strumenti anche per diffondere idee più valide.


MM:
 Saltiamo ai nostri ultimi governi giallo-verde e giallo-rosso. È cambiata solo la copertina? È vero che abbiamo più similitudini che differenze, tolti i diversi atteggiamenti nei confronti dell’Europa?
CC: C’è un diverso atteggiamento nei confronti dei conti pubblici. Il governo giallo-verde riteneva che la crisi fosse stata causata da Monti. Per uscire dalla crisi dovevano fare il contrario dell’austerità e aumentare la spesa in deficit. Questo atteggiamento ha portato alla crescita dello spread, che non ha fatto bene all’economia italiana. Se l’Italia fosse un paese poco indebitato sarebbe stato forse possibile usare la leva dei conti pubblici. Ma il nostro problema di crescita è strutturale. Abbiamo una crescita bassa da 20 anni e questo richiede riforme, non più deficit pubblico. Fare un’espansione fiscale per un paese con un debito pubblico così elevato non è più possibile. La ricetta spesso invocata è la flat tax, uno shock fiscale in deficit per far riprendere l’economia e magari far scendere in questo modo il rapporto tra debito pubblico e Pil. Questa opzione non ha mai avuto successo, in nessun paese.


MM:
 Il governo attuale è più prudente?
CC: La legge di bilancio non è né espansiva né restrittiva. Il deficit pubblico resta invariato rispetto al 2019. Il debito pubblico dovrebbe scendere secondo il governo dello 0,5% del Pil, molto poco. Si poteva lavorare sulla dimensione dello Stato. Nell’ottica di sinistra è meglio avere uno Stato che tassa di più e spende di più. Meno spesa e meno tassazione è invece un’ottica tipica della destra. Questa legge di bilancio in realtà non fa né una cosa né l’altra.


MM:
Servono più investimenti privati?
CC: Se chiediamo agli investitori cosa frena di più gli investimenti, la risposta è sempre la stessa: tasse, troppa burocrazia e giustizia lenta. Dobbiamo ridurre la burocrazia. Oggi abbiamo 103 tasse e tributi vari che devono essere pagati e se ne introducono di nuovi. Il nostro sistema fiscale è particolarmente complesso. Sono 30/35 i miliardi spesi dalle pmi per compilare moduli. Siamo al 51esimo posto sulla facilità di fare impresa nell’indice della Banca mondiale. Poi c’è la lentezza della giustizia. Secondo le ultime classifiche 2016, un processo civile in Italia richiede 8 anni e 2 mesi per i processi che arrivano in cassazione, contro i 2 anni e 2 mesi in Germania, i 2 anni e 3 mesi in Spagna, i 3 anni e 5 mesi in Francia e 1 anno e 2 mesi della Polonia. La riduzione della burocrazia e la lentezza della giustizia non mi sembrano priorità per questo governo, così come non lo sono state in passato. Oltre il 50% dei ricorsi sono di natura fiscale e in molti casi è l’Agenzia delle entrate che li presenta.


MM: Ma la burocrazia non nasce forse come un concetto nobile di difesa del cittadino contro il sovrano? È sempre stata un argine tecnico contro la discrezionalità. Perché oggi ha un significato soltanto negativo?
CC: Mi pare si possano identificare tre cause: il modo in cui sono scritti le leggi e i regolamenti, la mancanza di cultura organizzativa e informatica nella Pubblica amministrazione e la specializzazione delle piccole imprese, che identificano ogni processo amministrativo, anche necessario, con la “burocrazia”. La responsabilità principale è di chi scrive le norme e della stratificazione di queste ultime. Poi è vero che per dialogare col mondo servono contratti, procedure, sistemi informativi. Girano un mucchio di bufale sull’eccesso di norme. Bernardo Mattarella ha fatto un calcolo secondo cui ci sono in vigore 10mila leggi. Il triplo del Regno Unito. Siamo più o meno al livello della Francia, ma oltre le 10mila leggi statali abbiamo le 27mila regionali. Il numero di nuove norme è probabilmente cresciuto. Perché abbiamo questa passione per regolamentare e fare norme che poi non vengono rispettate? Ci vorrebbe un sociologo, uno psichiatra… però è così.

MM: Nel suo libro afferma che da un lato lottiamo contro eccesso di norme e regole, ma dall’altro ci sentiamo più protetti. Ci sentiamo nudi senza norma?
CC: Dovremmo accettare una maggiore discrezionalità. È una cosa paradossale. Da un lato abbiamo uno Stato che ci riempie di norme, stile Grande Fratello, Leviatano di Hobbes, però poi tollera l’evasione, le dichiarazioni solo proforma, le norme sul lavoro che non vengono rispettate. Il rapporto del cittadino nei confronti dello Stato è quello del suddito, come scrive nel suo ultimo libro Serena Sileoni dell’Istituto Bruno Leoni. Lo Stato fa finta di opprimerci ma poi non fa realmente rispettare le leggi. Nell’ambito commerciale vi cito il caso di un panificatore di Cremona che discute da tempo con l’Agenzia delle entrate: perché se sforni un pane specifico devi applicare l’aliquota del 4% invece di quella del 10%, il pane non è tutto uguale.

MM: La lotta all’evasione fiscale è un tema che ci sta a cuore. I manager hanno la ritenuta alla fonte. L’evasione ha effetti dannosi e distorsivi sui conti pubblici. Sul tema dell’evasione fiscale, al di là degli argomenti di pancia, cosa possiamo pensare sia indicato per l’Italia, un paese che ha cronicizzato questo male?
CC: C’è un fatto legato alla cultura. Dobbiamo reintrodurre al più presto l’ora di educazione civica. Poi c’è un aspetto strutturale: abbiamo un numero di lavoratori autonomi e di piccole imprese che è doppio rispetto a quello di Francia e Germania. Siamo inevitabilmente più esposti al rischio d’evasione. In passato abbiamo gestito male la raccolta delle tasse, è sbagliato contare sempre sui condoni fiscali, perché premiano chi ha evaso. Si raccolgono somme utili nel breve periodo, ma si dà l’idea che tanto poi arriva il condono. Ci sono condoni più premianti e altri meno. In ogni paese se uno non può pagare le tasse c’è la possibilità di un accordo con il fisco, ma senza condoni generalizzati. Si parla di ridurre l’uso del contante: è un segnale utile, aumenta la tracciabilità, che è molto importante. Se tu paghi con carta di credito quelle informazioni non vanno direttamente alle Agenzie delle entrate ma rimane un record. Può essere un deterrente, se utilizzato insieme all’incrocio delle banche dati già esistenti. Occorre anche fare ispezioni in modo più mirato, non come oggi spesso accade, quando si va dove già si sa che non si troverà niente. Occorre poi semplificare il sistema di tassazione: uno dei vantaggi della flat tax sarebbe quello di semplificare il calcolo della base imponibile, non è certo il numero delle aliquote che genera complessità. C’è poi chi sostiene che abbassando la tassazione si riduca l’evasione. Non c’è una risposta univoca. Se si riducono le aliquote di tassazione è possibile che ci sia un incentivo a evadere meno, ma se si pensa che tagliando le aliquote ci sia una riduzione automatica dell’evasione questa è pura fantasia.

MM: Saltiamo ora al panorama politico: è in evoluzione, si stanno consolidando le aree di destra e di sinistra e si formano nuovi partiti. C’è poi un’area molto grande e poco rappresentata in cui sono entrati alcuni leader sì conosciuti, ma che non sembrano in grado di aggregarsi e costituire un’area politica. Qualcuno inizia a dire che va recuperato un metodo, che era quello della Dc. L’ho sentito dire in ambienti non certo cattolici. Cosa vede nella sfera di cristallo?
CC: La sensazione quando si va a votare è quella di quando si va al supermercato e non c’è nulla di buono sugli scaffali, dunque esco senza comprare nulla. Perché si ha nostalgia di quel periodo con la Dc e il partito comunista? Perché c’era un’ideologia. Ora l’idea che sembra prevalente è quella dell’opportunismo. Vorrei un minimo di ideologia. L’ideologia può rovinare il mondo ma dà un’ancora alle persone per non andare in balia delle correnti.

MM: La politica è una commedia, un teatro shakespeariano. L’ultima domanda è: in questo teatro, se fosse obbligato ad avere un ruolo, si vede attore, regista o sceneggiatore?
CC: Al momento faccio il commentatore. Non si può fare il commentatore a vita. Ci saranno le elezioni? Forse a breve. In quel momento dovrò pormi il problema su cosa fare da grande. Al momento non me lo pongo.

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