2020: shopping disruption

La pandemia ha avuto un forte impatto sulle nostre abitudini di acquisto. Da una prima fase compulsiva a scelte più “attente”, fino al trionfo dell’e-commerce

Non si può dire che il 2020 non ci abbia riservato delle sorprese. Iniziato con l’evocazione dei Roaring Twenties, i ruggenti anni 20 del secolo scorso, il nuovo decennio ha portato sì grandi cambiamenti, ma di ben altro segno rispetto a quelli che hanno caratterizzano lo stesso periodo del 900.

L’epidemia di Covid-19 ha profondamente modificato le nostre vite: il modo di lavorare, di relazionarci, di spostarci. E anche i consumi, ciò che comperiamo. Che cosa è successo? Se consideriamo la spesa di tutti i giorni, emergono tre fasi principali. La prima fase, andata da metà febbraio a inizio marzo, si presenta come una reazione emotiva, di pancia, all’epidemia. Di fronte alla diffusione del virus, i consumatori hanno svuotato gli scaffali dei punti vendita e riempito il carrello. Una sorta di shopping compulsivo, poco organizzato, un po’ da “bunker” (con scorte di caffè, pasta, passata di pomodoro, patate e affini).

Dalla seconda settimana di marzo, c’è stata una svolta. Il prolungamento della quarantena ha spinto a ripensare gli acquisti e a mettere in atto nuove strategie. Si è profilata, pertanto, una spesa più attenta in termini di prodotti, così da selezionare referenze effettivamente utili, e più sostanziosa in termini di quantità, così da evitare di tornare varie volte in negozio.

Consumi diversi
La seconda metà di maggio ha segnato l’avvio della terza fase, che ha coinciso con un progressivo ri-torno alla normalità. Sono diminuiti i consumi di farina, uova e tinture per i capelli, che avevano caratterizzato il periodo “autarchico” del lockdown. In parallelo, sono aumentati gli acquisti di prodotti che “parlano” il linguaggio della socialità e dell’autogratificazione (come il makeup).

Negli stessi mesi è accaduto un altro fenomeno importante, al quale non si è prestata sempre attenzione: i prezzi sono aumentati. E questo nonostante la battuta d’arresto dell’inflazione. Non parliamo solo dell’incremento del prezzo del caffè al bar o del taglio dal parrucchiere (che, con la “giustificazione” dei costi di sanificazione, hanno talora gonfiato i listini), ma anche del prezzo dei prodotti di uso quotidiano (frutta, latte, pasta, salumi). L’innalzamento dello scontrino è derivato anche dal taglio del numero e dell’entità delle attività promozionali. In pratica, le promozioni sono state ridotte a meno di un quarto dei prodotti venduti sugli scaffali. Il tutto si è tradotto in un evidente svantaggio per il consumatore. Consumatore che – in fase di lockdown – stava già facendo acquisti in un regime forzato di minore concorrenza, chiamato a scegliere il negozio più vicino a casa e ad accontentarsi di quello che trovava sugli scaffali quando arriva il suo turno di accedere al supermercato.

Se dai prodotti grocery passiamo alla moda, la situazione si fa più difficile. Nella prima parte dell’anno gli italiani hanno limitato il fashion shopping. I motivi sono molteplici: dapprima la chiusura dei negozi, quindi – una volta terminato il lockdown – le restrizioni negli accessi agli store e i timori legati alla sanificazione dei capi. Senza dimenticare la riduzione del potere di acquisto connessa alla crisi economica, che spinge a rinunciare ai beni percepiti come voluttuari. Anche il lusso, che pure è per sua natu-ra anticiclico, ha sofferto. Lo stop ai flussi turistici ha inciso pesantemente sulle performance dei flagship store dei grandi centri, che vendono in primis ai consumatori provenienti dall’Asia, dal Middle East e dall’Est europeo.


Niente pizza stasera
Un altro settore che ha patito gli effetti dell’emergenza sanitaria è il “fuori casa”. Nell’arco di qualche settimana i fatturati di bar, pizzerie, ristoranti e pub sono stati azzerati. E la fine della quarantena non ha segnato una decisa inversione di rotta. Come prevedibile, i clienti non sono cioè tornati in massa ad affollare i tavoli dei locali che, rispetto all’estate dello scorso anno, registrano un calo medio del fatturato tra il 30 e il 50%. Insomma, se la pandemia ha ridotto praticamente a zero il giro d’affari del fuori casa, il post pandemia ha segnato un momento di forte discontinuità e imposto un cambio di paradigma.

Va detto che il delivery ha rappresentato per molti operatori della ristorazione un’ancora di salvezza durante e dopo il lockdown. Non è un caso che proprio nei mesi di marzo e aprile si sia registrato un incremento della richiesta di attivazione del servizio da parte dei ristoranti. D’altra parte, per i consumatori è stato (e continua ad essere) un modo di gratificarsi, di regalarsi una coccola. Ordinare significa non dover cucinare (con tutto quello che comporta in termini di tempo, energie e fatica), evitare di fare la spesa e, nel contempo, avere la possibilità di assaggiare un piatto fatto bene, a regola d’arte. Inoltre, soprattutto per la fascia anagrafica più giovane, c’è il tema della golosità e della sperimentazione. In altri termini, si ordina spinti dal desiderio di provare ricette e/o cucine alternative, sfiziose, che non si conoscono.

Tutti e-shopper?
In questo quadro in chiaroscuro l’unico vero trionfatore è l’e-commerce. Per anni si è da più parti lamentata l’arretratezza degli italiani in termini di consumi digitali e la loro scarsa propensione all’e-commerce. Ma ecco che, nell’arco di qualche mese, anche i soggetti più resistenti all’online si sono trasformati in e-consumer. Secondo Netcomm, dall’inizio del lockdown i clienti di shop digitali in Italia sono triplicati. Nei primi 6 mesi dell’anno gli e-shopper sono stati oltre 2 milioni, contro i 700mila relativi allo stesso periodo del 2019. Sono dunque più di un milione e trecentomila gli italiani che hanno scoperto le opportunità della spesa via click. E hanno comperato di tutto: dai prodotti per gli animali domestici (che nella prima metà dell’anno hanno segnato +154%) al food, dai cosmetici ai detergenti per la casa. Sono, invece, crollati i servizi, che in passato erano centrali nel mondo e-commerce. Emblematico il caso del turismo, che canalizzava il 25,6% del fatturato totale del commercio online prima della pandemia e che, nel 2020, ha subito inevitabilmente un forte rallentamento. 


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