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Riprendiamoci il turismo: Arturo Galansino (Fondazione Palazzo Strozzi)

Le azioni in atto per la ripresa di un settore chiave del nostro Paese. La parola ai manager
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 Riprendiamoci il turismo: Arturo Galansino (Fondazione Palazzo Strozzi)

Manageritalia vuole parlare dei vari comparti e territori del turismo italiano con una serie di interviste a manager di aziende e organizzazioni dell'intero settore (alberghi, cultura, leisure, agenzie viaggi ecc.) per cogliere le azioni in atto per la ripresa. Una ripresa che ci vedrà tutti protagonisti, come operatori o come turisti. Intervistiamo oggi Arturo Galansino, direttore Fondazione Palazzo Strozzi.

Quanto ha pesato questa pandemia su Fondazione Palazzo Strozzi e, più in generale, sul mondo dell'arte e del turismo culturale?
«Il mondo dei musei ha perso nel 2020 più del 75% delle presenze. È stata veramente molto dura per tutto il comparto museale ed è stata, credo, ancora più dura per le istituzioni virtuose come la nostra. È infatti più facile sopravvivere a questo genere di crisi per enti interamente a maggioranza pubblica; un’istituzione virtuosa come la nostra, il cui contributo pubblico è minoritario, certamente ha sofferto di più, perché abbiamo perso molti visitatori e sponsor privati. Inoltre, anche i fondi pubblici ordinari, già minoritari, sono diminuiti ulteriormente. Insomma, abbiamo subito perdite su tutti i fronti, però non siamo stati i soli: più le istituzioni si basano sul privato e su successi di bigliettazione più hanno sofferto. Ma non ci siamo dati per vinti e, forti dei nostri successi passati, abbiamo continuato a lavorare e a programmare».

Se invece ci allarghiamo al vostro territorio, Firenze in particolare e la Toscana più in generale, come ha pesato questa pandemia?
«I numeri sono stati drammatici, la situazione ha colpito duramente il settore legato al turismo in tutta la Toscana, anche se abbiamo avuto dei sentori di ripresa piuttosto rapida nei momenti di apertura l’estate scorsa: speriamo che si ripeta nei prossimi mesi e che sia l’ultima stagione in stato di crisi. È abbastanza chiaro che la pandemia ha sconvolto la geografia urbana e la società a tutti i livelli: abbiamo visto una città come Firenze cambiare rapidamente con le serrande chiuse. Il turismo dei grandi numeri è stato messo in crisi da questa pandemia e il suo sistema stravolto: questo deve far riflettere sulla sostenibilità dei progetti di modello e la gestione delle grandi masse di turisti».

Fondazione Palazzo Strozzi come è andata avanti fino a oggi?
«Ci siamo rimboccati le maniche, siamo stati tra i più bravi a reagire e siamo riusciti a trovare nuovi fondi privati, operazione miracolosa in questa situazione, che ci hanno aiutato a creare progetti speciali dedicati al nostro pubblico che non può venire al museo. Mi riferisco all’installazione di JR sulla facciata, per esempio, o al progetto di Marinella Senatore dell’inverno scorso. Ci siamo dati una direzione di “arte pubblica”: a musei chiusi siamo andati noi verso il visitatore portando l’arte nelle strade e negli spazi pubblici. Abbiamo lavorato molto sul digitale, aprendo sempre di più questo mezzo, che già utilizzavamo abbondantemente, e ci siamo dedicati in particolare ai nostri pubblici più fragili. Abbiamo cercato di non perdere contatto con nessuno di loro, organizzando laboratori speciali come per le persone affette da Alzheimer, Parkinson e Autismo, cercando di portare avanti queste attività per noi importantissime dal punto di vista del ruolo sociale di Palazzo Strozzi. Sono proprio le persone più fragili che hanno patito di più il distanziamento dalla cultura. L’opera di JR è stata definita a livello globale la più forte risposta del mondo dell’arte al problema del distanziamento dalla cultura. Un grido che è partito da Firenze. Questo è stato molto importante per la nostra città e per l’Italia perché ha fatto veramente il giro del mondo».

In che momenti e come avete avuto modo di essere aperti?
«Siamo stati aperti l’estate scorsa e adesso apriamo a fine mese (maggio, ndr) con una nuova grande mostra. Da novembre c’è stato un lunghissimo periodo di chiusura per i musei con qualche sprazzo verso febbraio per quanto riguarda la Toscana (dipendeva dal colore della regione), ma di base si potevano visitare i musei su prenotazione e non nel weekend: erano, quindi, aperture più che altro simboliche e chiaramente non sufficienti per una fondazione privata. Però, durante l’apertura della stagione scorsa siamo riusciti a fare buoni numeri, nel massimo rispetto delle regole, perché ci siamo organizzati molto bene grazie al digitale per smaltire code, gestire prenotazioni... Una delle esposizioni più viste in Italia lo scorso agosto è stata la mostra di Tomás Saraceno e questo ci ha dato anche grande ottimismo. Noi crediamo che i musei debbano essere aperti e dovevano esserlo anche prima, perché se gestiti bene sono luoghi tutt’altro che pericolosi».

Prima della pandemia che tipologia di visitatori avevate?
«Gli stranieri rappresentavano meno di un quarto del nostro pubblico, in effetti abbiamo meno paura di perdere il nostro pubblico straniero rispetto ad altre istituzioni dove questi sono la maggioranza. Poi abbiamo (dipende molto anche dalle mostre) un 30 per cento di toscani e il resto, quindi la maggior parte, è pubblico nazionale. Questo è molto importante, perché organizziamo eventi portando pubblico di qualità: il nostro target nazionale è di alto livello, viaggia per la cultura, consuma meglio e in modo più sostenibile e responsabile. Viene a Firenze non per andare nei luoghi del turismo di massa, perché ci è già stato più volte, ma per Palazzo Strozzi. È questo il turismo di qualità su cui bisogna lavorare. Noi importiamo questa tipologia di visitatori che crea un impatto economico importante in città che abbiamo quantificato grazie a studi di una società di consulenza internazionale e che vengono confermati anche da altre ricerche, tra cui una recente della Regione Toscana focalizzata proprio sull’impatto e sulle best practice delle fondazioni culturali. Ne è emerso che Palazzo Strozzi ogni anno con il suo lavoro produce circa 60 milioni di euro di indotto economico su Firenze. Sono cifre importanti e pienamente sostenibili a fronte di un minimo investimento pubblico e grazie, in gran parte, al denaro dei privati, quindi è un’eccellenza in questo senso».

Nell’immediato, ma anche nel medio termine, come vi aspettate che cambi la domanda?
«Abbiamo rinunciato per un po’ al pubblico straniero, però contiamo su un incremento in percentuale di visitatori sia locali che nazionali perché l’anno scorso con la mostra di Saraceno abbiamo avuto una gran parte di questi visitatori nazionali. Spero che questi tornino a Firenze, che è quello che serve a questa città e al nostro Paese».

Questa pandemia ha innescato dei cambiamenti irreversibili per il mondo del turismo. Secondo lei, quali in particolare?
«Ci sono delle abitudini che sicuramente terremo per un po’ di tempo. Le persone fanno più fatica a trovarsi a loro agio in luoghi molto affollati e angusti, quindi ci sarà maggiore attenzione nell’organizzazione dei tempi delle visite, dei luoghi e nell’utilizzo degli spazi. Da parte del visitatore ci sarà più attenzione a programmare le proprie visite per essere sicuri di avere spazio e possibilità di evitare le code, ma anche per vivere al meglio la propria esperienza di viaggio. Il digitale servirà molto: noi stessi abbiamo attivato un sistema, ancora più potenziato rispetto al passato, di prenotazioni online e stiamo cercando di spingere sempre più su questo canale».

Tra le novità, oltre al digitale, per quanto riguarda la sostenibilità come vi muovete?
«Noi facciamo tantissimo per andare incontro alle esigenze di pubblici diversi, dimostrando una grande attenzione verso i più fragili: addirittura abbiamo creato programmi appositi in questo periodo di pandemia dove i più deboli sono rimasti più distanziati dalla società. Siamo leader per quanto riguarda i programmi di accessibilità; lavoriamo con giovani, con le scuole, con diverse associazioni per andare incontro a qualsiasi tipo di pubblico e coinvolgerlo in attività culturali. Questo per noi è fondamentale, fa parte della nostra mission. Accessibilità è la nostra parola chiave, forse da una fondazione privata ci si potrebbe aspettare un altro tipo di atteggiamento, invece siamo molto convinti di questo nostro ruolo pubblico».

Come si immagina il turismo in Italia da qui a cinque anni?
«Difficile fare previsioni. Innanzitutto, mi auguro che tornino i turisti nel nostro Paese, perché nonostante ci sia ancora chi guarda il turismo con snobismo costituisce gran parte del nostro indotto economico e penso che sia un settore in cui c'è ancora molto da sviluppare, soprattutto in certe aree del Paese. Mi auguro, però, che fra cinque anni troveremo un turismo migliore rispetto a quello che abbiamo avuto, più attento, più colto, più sostenibile, meno centrato sul sistema delle masse che di fatto ha reso tutte le città d’arte sempre più in pericolo: pensiamo a Venezia, ma ci sono molti esempi in questo senso. Le ha rese anche meno attrattive per il pubblico colto, che tornando in città, per esempio per una mostra, soprattutto in alta stagione vive un'esperienza spesso difficile. Di fatto questi sistemi che creano viaggi per visitare l’Italia in pochi giorni e città come Firenze in poche ore non fanno bene né a Firenze né al turista stesso. Quindi più “slow”, più attenzione, più tempo, più cura…che sicuramente significherà anche una migliore esperienza del turista».

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