
Come presenterebbe brevemente il suo libro? Di cosa parla?
"Beati gli inquieti" parla della follia in almeno tre accezioni di significato: medico, artistico, spirituale. Parla della follia come diagnosi (ed esclusione dalla società), dei suoi linguaggi immaginifici, della follia come epifania di verità. C’è anche una riflessione sul valore terapeutico della scrittura e più in generale della finzione letteraria. Un libro (di narrativa), poi, dice anche cose diverse – a prescindere dalle intenzioni dell’autore - e sorprendenti, se è un buon libro. Spero che lo sia.
Qual è l’esigenza che ha sentito come scrittore? Da cosa nasce o cosa vuole comunicare il libro che ha candidato al Premio Neri Pozza?
Il romanzo è frutto di più di dieci anni di studio, esperienza, amicizia con pazienti di strutture psichiatriche. Sospeso tra realtà e finzione, il libro si confronta con domande ancora aperte a 40 anni dall’approvazione della legge Basaglia: dov’è finita la follia dopo la chiusura dei manicomi? il folle è tornato nella società? abbiamo superato lo stigma, la paura della follia? Tengo molto a questo libro, perché tengo alle persone a cui ho cercato di dar voce. Per anni ho raccolto (e reinventato) storie dolenti e poetiche di pazienti psichiatrici, della cui sorte sembra non interessare a nessuno. Credo nella letteratura come riscatto, come dovere di chi una voce ce l’ha e non deve usarla solo per dire se stesso.
La situazione attuale nel mondo e in Italia è complessa a livello economico e sociale; il suo libro può dare spunti di riflessione per il presente e per il futuro? Quali?
Innanzitutto, il fatto che ci siano editori come Neri Pozza disposti, in tempo di crisi, ad investire nella cultura è un segno che dalla crisi si può uscire. Spero che il mio romanzo porti ad una riflessione sul senso (e il valore) della “follia”, che implica a sua volta una riflessione su quella che noi consideriamo “normalità”. La follia è sempre stato uno scarto dalla norma sociale e – implicitamente – una critica ad essa. In un periodo in cui la “norma” è in crisi, può essere rivelatorio vedere le cose dal punto di vista di chi da essa è lontano (e per questo escluso). Una società sana è una società inclusiva ed autocritica. Sono le relazioni che curano: anche la follia.
AstraRicerche ha svolto un'indagine per Neri Pozza e ha mostrato che i lettori possono cercare svago/evasione, emozione, confronto con idee e ‘mondi’ differenti, conoscenza (del passato, del presente, …); il suo libro risponde – in particolare – a una di queste ‘domande’ dei lettori? O a una ulteriore?
Spero risponda al bisogno di letteratura - più che di intrattenimento -, dunque di forma e senso inseparabilmente, che si raggiunge attraverso una ricerca estetica ed etica. È un libro che regalerei ad un lettore che s’interroga, vuole conoscere mondi diversi dal suo e al contempo vuole confrontarsi con le inquietudini e beatitudini (anche le più recondite) che si porta dentro.
Sempre secondo l’indagine, per i lettori leggere è sia un piacere che un dovere (verso sé stessi, verso la comunità); cosa è, invece, scrivere per lei? In fondo, perché lei scrive?
Alla fatidica e ineludibile domanda Italo Calvino rispose: “Per imparare qualcosa che non so”. Mi piace molto questa risposta (è solo una delle tre ragioni fornite dell’autore nel saggio intitolato "Perché scrivete"). Credo che la letteratura sia una forma, se non di conoscenza in senso stretto, certamente di ricerca. Scrivo perché ho delle domande e perché credo che la letteratura offra risposte, unitamente al piacere e alla fatica della ricerca, che già di per sé sarebbe un ottimo motivo per scrivere.
I libri finalisti non sono ancora pubblicati, lo sarà in seguito quello che vincerà il Premio Neri Pozza e forse gli altri.
Stefano Redaelli è professore di Letteratura italiana presso la Facoltà di “Artes Liberales” dell’Università di Varsavia. Ha pubblicato il romanzo Chilometrotrenta (San Paolo, Milano 2011) e la raccolta di racconti Spirabole (Città Nuova, Roma, 2008).
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